A pochi giorni dall’inizio del campionato di Formula 1, abbiamo raggiunto Alberto Cei, psicologo dello sport e Professore all’Università di Tor Vergata e presso l’Università Telematica San Raffaele, oltre che consulente di diversi atleti olimpici, per disegnare insieme i profili psicologici di alcuni dei possibili protagonisti del prossimo mondiale.
In questa stagione vedremo l’attesissimo debutto in Formula 1 di Mick Schumacher. Un altro “figlio di” come Nico Rosberg ha raccontato, dopo il ritiro, di aver sofferto molto il confronto con il padre campione del mondo. Quanto può influenzare questa pressione indiretta sulle prestazioni dei piloti “figli di”?
Che uno lo voglia o meno, che sia consapevole – come Rosberg – o che non avverta questo peso, in questi casi, a livello inconscio c’è sempre una pressione con cui fare i conti. Anche e soprattutto per Schumacher, il cui padre ha indubbiamente scritto la storia della Formula 1. Questa pressione, però, non è necessariamente negativa per il pilota. Fino ad oggi, anche se nelle categorie minori, Mick Schumacher ha vinto, quindi non possiamo dire che ci sia stata un’influenza negativa a causa del suo cognome ingombrante, anzi. Nel suo caso specifico, poi, può anche rappresentare uno stimolo positivo, specialmente se Mick dovesse vedere nella propria carriera anche una possibilità di riscatto della propria famiglia contro un destino sfortunato. In quest’ottica, credo che potrebbe trarre molti stimoli dalla storia di suo padre.
E quindi, nella sua prima stagione in F1, che prestazioni possiamo aspettarci da Schumacher Jr?
Al netto della macchina, Mick dovrà avere un mind set molto preciso: pretendere da sé stesso il massimo, sempre. Rischiando di non riuscirci, anche di fallire. Molti sportivi, anche di alto livello, durante la competizione si lasciano degli alibi, per poter dire il classico “Non ho dato il massimo, avrei potuto fare di più”. Se riuscirà ad evitare questo atteggiamento, potrà fare la differenza.
Un’altra prova fondamentale, per Mick, al di là del proprio cognome, sarà quella di confermare le sue prestazioni anche in un campionato più difficile e che comporta un’esposizione mediatica globale. Bisognerà misurare il suo autocontrollo, una qualità imprescindibile per uno sportivo che vuole essere vincente e che spesso può venire meno, come dimostrano le ultime stagioni di un campione del calibro di Vettel o di un talento emergente come Leclerc.
Il rapporto padre-figlio in Formula 1, e in generale negli sport individuali, è sempre stato argomento di dibattito. Max Verstappen forse ne è l'esempio più lampante. L'olandese ha recentemente dichiarato che il padre, dopo una brutta gara ai tempi dei kart, lo scaricò in autostrada. E in tanti ricordano la severità di Jos con il Max bambino, impegnato nella scalata verso la Formula 1, per certi versi simile a quella descritta da Agassi in “Open”. Come può aver influito questo “metodo educativo” sulla sua crescita e sul suo comportamento di oggi?
Si tratta di un “metodo educativo” che si basa sul concetto di “Uno su mille ce la fa”. Nel caso di Agassi, ad esempio, il padre ha rovinato altri due figli, prima di trovare in Andre un campione. È un approccio negativo e molto rischioso, perché non sappiamo come il ragazzo possa reagire. Può esserci, in alcuni casi, una reazione psicopatologica, in cui il giovane arriva quasi ad auto-sabotarsi, a fallire o sbagliare apposta e quindi a non arrivare al successo, nonostante il proprio talento. E di questi ragazzi, di questi “999” che hanno subito un approccio educativo simile e che non hanno avuto fortuna, non sappiamo nulla, perché la loro storia non viene raccontata. Ci possono comunque essere casi, come ad esempio quello di Verstappen, in cui il ragazzo gode già di una buona autostima e che, da questi scontri, riesce a trarre lo stimolo di voler dimostrare il proprio valore. Ma parliamo, a onor di cronaca, di casi molto rari.
Sempre a proposito di Verstappen, nelle ultime stagioni lo abbiamo visto annientare completamente i compagni di scuderia. Ragazzi talentuosi, che nelle categorie minori hanno dimostrato talento, ma che arrivati al fianco di Max si sono spenti. Solo questione di un talento non sufficiente o anche di un atteggiamento ostile all'interno della squadra?
Senza dubbio Verstappen, figlio di un’educazione basata su “vita o morte” e che, nonostante quella, è arrivato ai massimi livelli, è un ragazzo molto determinato e duro. È quindi possibile che Max tratti i propri compagni come avversari, anche fuori dalla pista. Ed è possibile, allo stesso modo, che i suoi ultimi compagni non abbiano la sua stessa tenuta psicologica e soffrano questa situazione. Un approccio che può ricordare quello di Lorenzo in MotoGp, anche lui in una costante prova di forza con i propri compagni di squadra.
Passando alla rossa, Carlos Sainz debutterà con la Ferrari: un solo anno di contratto per dimostrare il proprio talento a Maranello, mentre l'ombra dei giovani della Ferrari Driver Academy (tra cui Mick Schumacher) si fa sempre più ingombrante. Come potrebbe giocare questa consapevolezza, questa necessità di fare tutto bene fin da subito, sull'anno di Sainz in Ferrari?
Quando gli atleti, all’inizio di un’esperienza, sono messi fin da subito in competizione e in discussione, ci sono buone probabilità che falliscano. Soprattutto quando hanno la sensazione che ogni prestazione venga giudicata più del dovuto. Se non si sente la fiducia dell’ambiente e non si respira serenità attorno alla propria posizione, come mi sembra nel caso di Sainz il cui contratto di un solo anno è emblematico, tutto si fa più complicato ed è quasi impossibile vincere. Se fossi il team manager della Ferrari spenderei davvero tanto tempo ad incoraggiare Sainz e a cercare di dargli la sensazione di essere sostenuto, in maniera incondizionata, da tutto il team. È l’unico modo possibile per valorizzarlo. Poi saranno senza dubbio cruciali le prime prestazioni per far sì che acquisisca sicurezza.
Anche in questa stagione, a bordo della Mercedes, ci sarà Lewis Hamilton, una figura molto particolare sotto il profilo psicologico. Da sempre sembra cercare l'accettazione del pubblico, della stampa, degli altri. E questo suo lato, negli anni, ha infastidito i tifosi, che non capiscono fino in fondo il suo carattere. Competitivo, affamato, attivo sul piano sociale, ma forse bisognoso di rassicurazioni? Forse non così sicuro di sé come appare?
Personalmente non credo molto nel concetto di “sicurezza”. Non ritengo, infatti, che chi faccia grandi cose sia immune dalle insicurezze e quindi non mi stupisco quando grandi sportivi diano dimostrazione delle proprie. È questo aspetto che rende “umani” dei vincitori seriali come Hamilton. A mio avviso, la sua carriera, come quelle degli altri grandi atleti come lui, non deve essere interpretata come una cavalcata gloriosa, ma come una continua vittoria sulle proprie insicurezze.
Negli sport in cui il pubblico partecipa ed incide così tanto, che non sono poi molti, è chiaro che il rapporto con i tifosi sia importante e vada gestito. Per fare un esempio pratico, a Marc Marquez rode che Valentino Rossi, nonostante tutto, abbia più tifosi di lui. È una reazione normale ed è una dimostrazione del fatto che anche i campioni siano vulnerabili, anche se molto meno delle persone normali, perché dotati di un autocontrollo che gli permette di districarsi anche quando le cose non vanno bene, che è ciò che fa la differenza.
Tornando ad Hamilton, anche se questa ricerca di approvazione possa realmente essere una sua debolezza, non vedo alcun problema. Magari è il suo tallone d’Achille: lo aveva anche Achille, perché negarlo a lui?
È più che legittimo che, in uno sport in cui il pubblico partecipa come la Formula 1 e con la visibilità globale data dalle sue vittorie, Hamilton voglia piacere ai propri tifosi.
In un mondo iper-connesso come quello dei social, poi, è inevitabile che questi sportivi abbiano una esibizione continua della propria quotidianità e che siano continuamente giudicati per quello che fanno. Ma non vedo nella sensibilità di Hamilton, proveniente da una famiglia povera e primo pilota di colore a vincere in F1 - uno sport fino ad allora elitario – una debolezza, anzi credo che sia una grande forza.
Ma se davvero Hamilton avesse bisogno di una continua conferma dell’affetto dei propri tifosi nei suoi confronti, nel momento in cui questi dovessero negarsi o trovarsi in disaccordo con lui, l’ipersensibilità che sembra avere non gli si potrebbe ritorcere contro?
Non è una novità che grandi sportivi abbiano affrontato momenti di difficoltà psicologica, da Buffon alla Pellegrini, passando per Phelps, mentre davanti al grande pubblico apparivano forti, vincenti, felici. Mi sembra che Hamilton sia attrezzato per superare anche questa eventualità e credo, anzi, che la responsabilità sociale che dimostra, in questo senso, sia una grande forza per uscire anche dai momenti di sconforto. In più, la sensibilità di Hamilton non viene vissuta come un fatto personale, ma come una sensibilità indirizzata al voler migliorare il mondo in cui si vive, un po’ come ha fatto e fa Lebron James. Questo aspetto aggiunge, senza dubbio, qualcosa in più a questi sportivi: è una dimostrazione, a sé stessi e al pubblico, che non sono soltanto atleti formidabili, ma anche molto altro.
In ogni caso Lewis Hamilton è un esempio di perseveranza e, per usare le sue parole, è un vincitore seriale. Ha più volte ammesso che il suo segreto è presentarsi ogni anno a inizio stagione con più motivazione rispetto all'anno precedente, perché ogni stagione migliorarsi, e non farsi raggiungere, diventa più difficile. Come si trova questa motivazione? Che cosa scatta nella testa di una persona così vincente: ossessione o altro?
L’approccio di Hamilton è quello del “perfezionismo positivo”, un tratto che ha in comune con altri grandi atleti e allenatori. Si tratta di un perfezionismo “positivo” perché non diventa ossessione, bensì ottimismo che ti spinge a credere di poter sempre migliorare il tuo livello attraverso l’attenzione ai dettagli. Un concetto spiegato molto bene anche da Julio Velasco che, quando era allenatore del Modena Volley, diceva: “Quando vinco uno scudetto, so che l’anno dopo dovrò cambiare completamente i miei allenamenti”.
L’atleta, o coach, diventa così come un artigiano che, ad ogni stagione, cerca di smussare, limare e sistemare gli errori commessi l’anno precedente. Lewis, nella sua analisi post-gara e non in quella fatta davanti ai microfoni, non dirà mai “Ho fatto una gara cattiva o buona”, ma saprà perfettamente la curva e il momento in cui avrebbe dovuto fare meglio e su quello andrà a lavorare. Quando gli sportivi perdono questa voglia di migliorarsi, questo fuoco interiore, è giusto che mettano fine alla propria carriera. E non mi sembra sia questo il momento di Hamilton.