“È stato decisivo ovunque è andato con un cocktail di tecnica e forza che nessuno ha mai avuto come lui nella storia del calcio”. Non ha dubbi Luigi Garlando, giornalista della Gazzetta dello sport e scrittore, nel considerare Zlatan Ibrahimovic uno dei più forti calciatori di sempre. Ancor di più, dopo averlo conosciuto anche umanamente. L’autore di ‘Adrenalina: My untold stories’ (Cairo editore), ci ha spiegato la singolarità di questo libro, che per la prima volta non si basa sulle doti tecniche e atletiche del calciatore o sulla personalità dirompente, quando invece sull’uomo che arrivato a 40 anni, come tutti, ha le sue paure e le sue ansie, in particolare rispetto al tempo che scorre.
Vista la personalità del personaggio, com’è stato lavorare fianco a fianco di Ibra?
Da quello che si intuisce anche dalla sua professione, Zlatan è una persona molto seria. Non è mai arrivato in ritardo a un appuntamento. Tutto quello che decide di fare lo prende in modo molto professionale. Anche per questo, dal punto di vista lavorativo, è stato tutto sommato semplice. Certo, poi è sempre Ibra.
C’è un aneddoto non riportato nel libro che ti ha testimoniato la sua personalità?
La prima volta che ci siamo sentiti gli ho chiesto dove potessimo vederci, se a Milanello o a Casa Milan, ma lui mi ha detto “no no, vieni da me”. Quando sono arrivato ha premesso: “Sei il primo giornalista che faccio entrare”. Allora ho ringraziato: “Per me è un onore”. Ma lui ha rintuzzato: “Non so se è onore, ma una grande pressione”. Insomma, mi ha intimidito subito mettendomi alla prova…
Un po’ come in campo.
Esatto. Però il libro l’ha voluto farlo lui, non l’ha subito come operazione commerciale per guadagnare qualche soldo in più, non ne avrebbe avuto bisogno. Sentiva invece la necessità di dire delle cose e non solo da calciatore. Qui dentro c’è l’Ibra di Sanremo, non quello che vediamo in campo. Quello che al festival ha voluto ringraziare gli italiani, a cui piace essere d’ispirazione per gli altri. Oggi è più gratificato nell’aiutare i giovani del Milan a crescere che di fare la giocata decisiva, che comunque riesce a fare lo stesso. Arrivato a 40 anni ha tirato le fila, parlando di temi più ampi come la vita, l’amore, la libertà, la legge. Un bilancio per guardare verso il futuro.
C’è un aspetto umano che ti ha stupito in lui?
Soprattutto l’ansia del futuro. Credo sia il valore aggiunto di questo libro. Nel volume che poi è diventato un film si vede il ragazzo che si vendica del suo passato difficile e diventa un super uomo. Qui, invece, non ha avuto paura di dimostrare le sue fragilità. Non mi aspettavo confessasse questa paura del tempo che scorre. Mi è capitato di chiacchierare con Buffon poco tempo fa e lui ha tanti progetti e quasi non vede l’ora di smettere per realizzarli. Invece Ibra ammette che ogni giorno gli fa più paura. “Chi me la darà nella vita di tutti i giorni l’adrenalina che mi dava Chiellini? Non posso mica andare in giro a prendere a pugni la gente” mi ha detto. Questa ansia di ciò che verrà è stata davvero sorprendente.
Sorprende che sia ancora così decisivo in campo.
È solo grazie alla sua disciplina assoluta. Ha una mistica del lavoro impressionante. Mentre parlavamo aveva sempre una macchina attaccata a una gamba, o faceva esercizi con il suo preparatore personale presente 24 ore su 24. A una certa età ha accettato che il suo corpo stava invecchiando e quindi si è impegnato in questa cura maniacale unita alla mistica del dolore, infatti ripete spesso “quando soffro sto bene”. L’allenamento costante lo ha tenuto in questa condizione.
E al Milan questa mentalità si è riverberata su tutti gli altri.
Al Milan si sente un esempio. Mi ha confessato che a volte Pioli gli dice “Ibra questo non farlo, tira un po’ il fiato” e invece lui gli risponde “no no, se lo faccio io anche gli altri lo vedono. Se salto anche solo un esercizio cade tutta la mia credibilità”. Ha una assoluta volontà di ferro, questo è il suo segreto. Anche dal punto di vista fisico.
Prima o poi, però, dovrà accettare che esiste una vita oltre al calcio giocato. Tu in che ruolo lo vedresti meglio?
Qualcosa di più preciso lo si capisce nel capitolo sulla sua esperienza in Francia. È qui che racconta, un po’ per ridere ma neanche tanto, di aver chiamato il presidente del Psg, Nasser Al-Khelaifie, per dirgli: “Se mandi via Leonardo e mi fai direttore sportivo ti metto a posto la squadra. Lui è bravo e un amico, ma non ha il giusto carattere. In squadra fanno tutti quello che vogliono”. Ecco, io lo vedo in quel ruolo, di dirigente forte e uomo squadra. Più che l’allenatore, dove devi studiare e aggiornarti costantemente e non so se avrebbe la pazienza necessaria. Invece da leader di popolo, come in campo, lo vedo bene anche fuori.
Dalla sua storia emergono poi alcune storture del calcio, come quando dice: “A Roma in 50mila mi gridavano zingaro, e l'arbitro ha ammonito me”.
È così, purtroppo ancor di più con i giocatori di colore, si fa troppo finta di non vedere o sentire. Non c’è stata la giusta reazione per combattere il razzismo nei nostri stadi. Si preferisce nascondere invece di attaccare. Eppure, avremmo i giusti mezzi tecnologici per andare a individuare chi sbaglia, ma ancora si minimizza troppo. Gli stessi allenatori e giocatori quando si difendono dicendo “non è razzismo, lo ha fatto per innervosire l’avversario” non compiono un buon servizio.
Un altro aspetto controverso è il ruolo dei procuratori. Ibra si affida da sempre al potentissimo Mino Raiola, che lui considera un secondo padre. Ma queste figure nel calcio hanno forse un potere che è sfuggito di mano?
Lo credo, sarebbe necessario ridisegnarle attraverso normative nuove da parte della FIFA. Senza dimenticare che i soldi che vanno a loro escono dal movimento calcio, non aiutano a farlo crescere economicamente. I procuratori hanno ormai un potere che va bilanciato, per arrivare a una figura ricollocata in base a nuovi studi e norme.
Senza contare il Var, che avrebbe dovuto disinnescare ogni polemica e, invece, sembra averne favorite altre…
Dopo l’entusiasmo iniziale, durante il quale sembrava di essere approdati nel regno della giustizia assoluta, ci siamo resi conto che la discrezionalità è ancora ampia con altrettanti margini di errore umano e quindi il sorgere di sospetti. Però, nel bilancio totale, credo sia stato un grande progresso. Sono almeno stati eliminati i macro-errori, già questa è una conquista. Che poi vada tarato meglio, soprattutto sui margini di intervento degli arbitri, che spesso spezzettano troppo le partite e quindi anche le emozioni, è innegabile. Ma non bisogna certo tornare indietro.
Tornando al libro, c’è da tempo un dibattito intorno a Ibrahimovic che continua a dividere: quale sarà il suo posto nella storia del calcio?
È difficilissimo stabilirlo, il dibattito è aperto. Io credo di essere nel partito di minoranza. In quello di maggioranza lo collocano lontano dai primi posti, occupati da Maradona, Messi o Ronaldo. Mentre ci sono persone come Roberto Mancini che sostengono non gli manchi niente rispetto ai più grandi. Anch’io sono di questa idea. Non solo perché ho fatto un libro su di lui, ma perché è stato un giocatore unico. Se analizziamo i calciatori, di solito pensiamo a dividerli in base a chi era forte fisicamente o forte tecnicamente. Ma Ibra non puoi collocarlo in questo modo. Un attaccante così grosso e così tecnico non si era mai visto. Poi ha anche avuto una parabola sfortunata, perché quando la Juve andò in B si era già accordato con il Milan. Al rilancio dell’Inter andò in nerazzurro, ma avrebbe potuto vincere la Champions 2007. Così nell’Inter, se fosse rimasto ancora una nno avrebbe vinto il Triplete. E in entrambi i casi avrebbe potuto aggiudicarsi il Pallone d’Oro. Solo per delle coincidenze non ha vinto quei trofei, però è stato decisivo ovunque è andato con un cocktail di tecnica e forza che nessuno ha mai avuto come lui nella storia del calcio.