Le fotografie non invecchiano. Jules Bianchi ha lo stesso sorriso di allora, quello grande e spensierato di un ragazzo che a 25 anni insegue il suo sogno. Gli occhi buoni, il fare di un ammaliatore a cui nessuno, dicono gli amici, riesce a resistere. Resta lì, dentro ai ricordi e alle fotografie, in un eterno tempo presente che non cambia, non sbiadisce. Sono passati dieci anni da quelle immagini, esattamente dieci anni dal 5 ottobre 2014, il giorno di un incidente sotto la pioggia battente di Suzuka, che ha cambiato la storia della Formula 1. Uno schiaffo, a vent'anni dal weekend nero di Imola 1994, dall'ultimo morto in Formula 1, dalla paura. Una ferita aperta per uno sport improvvisamente di nuovo vulnerabile, e un dolore senza tregua per chi - quel giorno a Suzuka - ha perso Jules. Il pilota, il giovane talento destinato a un futuro brillante, il primo membro dell'appena nata Ferrari Driver Academy. E l'uomo, il ragazzo a cui nessuno riusciva a dire di no, il cuore di un paddock che non l'ha mai dimenticato.
Non bastano dieci anni a curare una ferita come quella che si è aperta quella domenica a Suzuka, non basterà nessuna misura del tempo. Si va avanti, si comprende, si fa pace con il destino, la sorte, la sfortuna. Ma la pioggia sulla pista giapponese continuare a cadere a ogni anniversario di quel 5 ottobre e a dieci anni da quel giorno, dentro a una cifra grande e spaventosa, la pioggia sembra cadere ancora più forte. Acqua che non lava via il dolore e il rimpianto, la consapevolezza che le cose sarebbero potute andare in modo diverso. Che un mezzo di recupero non doveva trovarsi lì, ai margini della pista, mentre le monoposto giravano con doppia bandiera gialla senza safety car, che Jules doveva andare più lentamente in quel passaggio, che se la monoposto di Sutil non fosse uscita lì di pista, nello stesso punto di Jules, oggi avremmo un'altra storia da raccontare. Sono "se e ma" che non servono a niente, perché l'unica certezza è l'assenza di Bianchi a dieci anni da quella domenica giapponese. Nove mesi di coma, nove mesi di una speranza attaccata al filo. "Forza Jules" ripetevano tutti, anche quando appariva ormai evidente che la forza servisse a chi era costretto ad andare avanti, a togliere la testa da quel 5 ottobre, dalla rabbia e dalle domande.
"Ciò che ci fa andare avanti è la consapevolezza che da quel giorno la Formula 1 è diventata più sicura" dice papà Philippe Bianchi, ricordando l'impatto che la morte del figlio ha avuto sul circus, a vent'anni dall'ultima morte in F1, quella di Ayrton Senna nel 1994. Un'organizzazione costretta a rimettere i piedi per terra, a fare i conti con il dolore e la sicurezza, con il senso di ingiustizia. Negli anni successivi è arrivata la Virtual Safety Car, l'Halo, una maggior attenzione all'esposizione di bandiera rossa e all'uso di mezzi di recupero in pista. C'è tanto ancora da fare e il rischioso mancato incidente di Pierre Gasly proprio a Suzuka nel 2022 lo dimostra, ma l'impatto della morte del pilota francese - stella nascente di una Formula 1 che negli anni successivi lo avrebbe sicuramente ricordato per il suo talento e i successi ottenuti - è stato enorme per tutto l'ambiente. L'eredità di Jules risiede lì, in un cambiamento reale, così come resta tra le mura della Ferrari Driver Academy. Un centro di crescita dei piloti di Maranello che Bianchi ha inaugurato come primo pilota della storia della FDA e che dopo di lui, nei dieci anni successivi, ha formato decine di ragazzi, dando una speranza ai loro sogni, consegnandoli al mondo del motorsport. Sono certezze che curano il rimpianto in una giornata fatta di un dolore che però non si lava via, e che non si scioglie nella pioggia del 5 ottobre. Neanche dieci anni dopo.