"Non andrò mai più a un GP in vita mia". Tra le tante dichiarazioni e testimonianze lette sui social, dopo la disastrosa gestione dell'organizzazione del Gran Premio di Spa di domenica, questa spicca sopra le altre.
Perché, nella sua semplicità, racchiude tutta la delusione di un sogno che si è velocemente trasformato in un incubo: il sogno di chi, con molti soldi spesi e tantissimi sacrifici, voleva assistere dal vivo allo spettacolo del proprio sport preferito, in una delle piste più belle del mondo.
E invece la pioggia è arrivata a rovinare tutto, rendendo impraticabile il circuito e impossibile mettere in pista in sicurezza i piloti. Poi le decisioni della direzione gara, le notizie che non vengono prese, l'orario che continua a spostarsi in avanti e infine, a completare l'opera, la farsa dei due giri completati in regime di safety car, così da poter assegnare metà punteggio e non annullare il GP.
Un delirio che Elena Todisco (@itstods) ha vissuto sulla propria pelle e raccontato attraverso il suo profilo Twitter, con contenuti diventati immediatamente virali: vi riportiamo di seguito il testo integrale.
"Dopo aver passato oltre sette ore e mezza sotto la pioggia battente per vedere un Gran Premio che non si è corso, quando hanno dato le bandiere rosse dopo i due giri, prima ancora che confermassero la cancellazione, siamo usciti dal circuito. Abbiamo camminato dalla Campus all'Eau Rouge, per uscire nel punto esatto in cui la navetta ci avrebbe recuperati. Tale navetta ovviamente piena ai limiti della decenza di gente fradicia e bambini in lacrime ammassati e pedate di fango. Siamo entrati senza speranza di sederci, coscienti che ci avremmo messo moltissimo tempo visto il meteo e considerata la quantità di gente presente. Siamo rimasti un'ora e dieci letteralmente immobili nel parking lot. Avremo fatto sì o no 15 metri. Congelati, bagnati fradici e sporchi di fango, in mezzo a un bosco, in una coda infinita di macchine che si estendeva per chilometri e chilometri. Abbiamo iniziato a passarci buste di plastica per sederci per terra, una situazione ai limiti del surreale. Niente uber, niente alberghi. I taxi non rispondono e se rispondono lasciano in attesa. Più di sessanta persone letteralmente a terra senza idea di come tornare a casa (e questo è solo il piccolo esempio della nostra tratta). Momenti di incertezza e sconforto. Verviers conta 54 mila abitanti. Ha una stazione piccola, di notte c'è un solo dipendente e parla solo francese. La maggior parte di noi, come si può immaginare, non lo capisce benissimo. Una signora messicana sembra intendere che ci sia un bus in arrivo. Davvero? Fantastico. Sono le dieci e dieci, l'ultimo treno che da Liége porta a Bruxelles parte alle undici e cinque. Una trentina di chilometri, senza traffico, dovremmo farcela. Il problema è che aspettiamo e aspettiamo e aspettiamo, ma questo bus non arriva mai. Ma a che ora era previsto? Non era previsto, lo ha chiamato l'omino della stazione.
Cerchiamo di farci forza a vicenda anche se siamo stanchi e infreddoliti e non andiamo in bagno da undici/dodici ore. Chiacchieriamo in molte lingue, veniamo da tutto il mondo. Parliamo per un'ora e oltre, senza presentazioni. Ci raccontiamo le nostre impressioni e condividiamo lo sconforto. I soldi spesi, le difficoltà. Ci sono due ragazzi irlandesi che hanno speso 450€ a testa per il solo ingresso della domenica, all'Eau Rouge. Una coppia che se li era regalati per l'anniversario. Una comitiva lo aveva inserito all'interno dell'itinerario di un road trip per il centro Europa. Per molti di noi era il primo Gran Premio dal vivo e siamo stati tutti d'accordo nel dire che probabilmente sarà anche l'ultimo. Finalmente, alle undici e venti, dopo quasi due ore in piedi ad aspettare, arriva un bus. Ci precipitiamo alla fermata, sembra un film. Per Liége? L'autista dice di no. Carlos, il bambino di otto anni, si mette a piangere. Siamo tutti molto provati.
L'omino della stazione, dopo essere sparito ed essersi preso tanti di quegli insulti che non stanno nei caratteri a disposizione, scende dal suo ufficio e va a parlare con l'autista del bus, gli spiega la situazione. Gli dice: "hai visto Spa? Sono rimasti bloccati." L'autista decide di allungare il suo turno di un'altra ora e di portarci fino a Liége. Ci riversiamo sul bus come una mandria, come se volessimo abbatterlo, e appena seduti gli facciamo un lungo e commosso applauso. È il nostro driver of the day. A quanto pare, arrivati a Liége, ci aspetta un altro autobus. L'incubo sembra finito. Perfino le chiacchiere si diradano, sostituite da pensieri più tangibili: una doccia, una valigia da preparare.
Arrivati a Liége, la seconda batosta. Non ci sono più bus. Un inserviente ci scorta al piano superiore, ci dà dell'acqua e ci fa usare il bagno. Per me, che ho il ciclo, è la prima volta in otto ore. Per la ragazza russa che mi presta i fazzoletti, la prima in dieci ore. Un piccolo sollievo. A Liége scopriamo che l'omino della stazione di Verviers, che tanto avevamo insultato, si è prodigato per cercare davvero una soluzione. A quanto pare, ci stanno chiamando dei taxi per accompagnarci a Bruxelles. Le tempistiche, però, sembrano lunghe.
Noi dobbiamo tornare al bnb per fare i bagagli e prendere un aereo alle sei. Abbiamo i telefoni scarichi, siamo a digiuno e già un po' raffreddati. Un ragazzo di Padova ci presta la sua powerbank. Sembra di sognare. Riempiamo sei taxi per Bruxelles, due per Bruges e uno per Maastricht. Nel nostro c'è un ragazzo indiano che ha girato tutta l'Europa. L'autista non ha il radionavigatore e ci chiede di cercare la strada su google maps. All'una e quaranta, arriviamo alla stazione centrale. Sette ore dopo, riusciamo a lasciarci alle spalle il #BelgianGP e a tornare a casa. Questo incubo, finalmente, volge al termine. Ho due voli da prendere, zero ore di sonno a mio carico e tanta tristezza. Quando le cose sono troppo belle per essere vere, di solito non sono vere".