Jarno Zaffelli, 45 anni, da Reggio Emilia, è il progettista di autodromi che usa i rettilinei, i cordoli e le curve per donare anima alle piste. Da Imola, dove ha iniziato con degli interventi nel 2011, a Silverstone, Portimao, Singapore, Paul Ricard, Mugello, Termas de Rio Honda, Yas Marina alla nuova Zandvoort. La lista è lunga. Chiamato da Niek Oude Luttikhuis, il direttore del circuito, per rinnovare la pista e renderla più impegnativa per i piloti, Zaffelli, fondatore della società Dromo, ha accettato la sfida di fare qualcosa di unico.
Qual è il briefing che cui sei partito?
Mi è stato chiesto di fare qualcosa di innovativo conservando il sapore delle piste old school. “Avete trovato l’uomo giusto” ho risposto, perché avere carta bianca mi ha permesso di usare la tecnologia, l’esperienza, ma anche il tocco italiano. La sicurezza è la prima cosa di una pista. Ma poi c’è la bellezza, la creatività.
Che legame hai con la pista?
Ho sempre avuto un rapporto speciale con Zandvoort perché il suo ex direttore, Hans John Hugenholtz, ha disegnato Suzuka – uno dei miei circuiti preferiti – nel 1962. Non ho avuto modo di incontrarlo di persona perché è morto nel 1995, ma cinque anni fa sono venuto a visitare la pista perché volevo imparare da lui. Sono stato accolto da Niek Oude Luttikhuis, il direttore sportivo. Abbiamo fatto un giro della pista e abbiamo iniziato a discutere su come migliorare questa o quella curva. È così che è iniziato tutto.
Quali sfide avete dovuto affrontare?
Ci piace progettare piste che riflettano la sensazione che il pilota ha quando guida. Siamo spinti dalla voglia di tradurre in rettilinei, curve e cordoli l'adrenalina di un giro di pista. La nostra filosofia è quella di progettare un tracciato che sia percepito come una grande sfida tanto da “spaventare” i piloti. Chiaramente la sicurezza è al primo posto e in questo il supporto della FIA è fondamentale nel valutare i nostri calcoli che si sono spinti osando quello che non era mai stato fatto prima.
La pista sembra un giro sulle montagne russe.
È l’effetto che ci ha chiesto la direzione del circuito. La sfida era proprio esaltare la personalità della pista esistente. I piloti, e anche i fan, resteranno sorpresi.
Da dove nasce l’idea dei banking, che sono diventati il tratto distintivo della nuova Zandvoort?
Da un richiesta della FIA di allungare il rettilineo per facilitare i sorpassi. Non potendo fisicamente allungare la lingua d’asfalto per motivi ambientali (c’è una riserva naturale da una parte e delle casette per le vacanze, dall’altra), abbiamo pensato di sfruttare la terza dimensione e quindi di esplorare la possibilità di ridurre l’accelerazione laterale delle vetture inclinando la pista. Oggi su 14 curve due soltanto possono considerarsi “piatte”, mentre tutte le altre sono caratterizzate dal cosiddetto “banking” ovvero dall’inclinazione della sede stradale verso l’interno della curva stessa, con valori che vanno da un minimo di 3 gradi fino ad un massimo di 19 nella parte esterna di curva 3 (e di 18 nell’ultima, lunghissima, curva 14).
La T3 sembra una grande onda.
È forse la curva più impegnativa e spettacolare. Sopraelevare la sede stradale e basta non è sufficiente per garantire spettacolo, impegno di guida e sicurezza. Ci siamo concentrati anche su una sapiente combinazione dei dislivelli e l’utilizzo di un angolo di sopraelevazione variabile anche all’interno della stessa sezione di curva, come nel complesso dello Hugenholtz, uno dei punti più impegnativi. La parte interna della curva 3, per esempio, presenta un’inclinazione di circa 4.5 gradi, mentre la parte più esterna di quasi 19. Non solo, il bordo esterno della carreggiata è oltre 4 metri più alto di quello interno, nonostante la curva abbia appena 17 metri di raggio, e avvicinandosi i piloti avranno l’impressione che sia quasi la curva stessa ad andargli incontro cercando quasi di intimorirli.
Sei riuscito è coniugare eredità e innovazione?
Gli abitanti di Zandvoort, che conoscono il tracciato come i palmi delle loro mani, sono fieri del risultato. Questo per me è il riconoscimento più grande.
Qual è stata la sfida più grande?
Sicuramente il meteo perché i lavori si sono concentrati tra dicembre e febbraio, quindi freddo, vento e la sabbia. Zandvoort nasce infatti vicino al mare su dune di sabbia. La pista ricorda anche questa particolarità perché spingere sulla pista sopraelevata è come accelerare sulle dune.
Hai lavorato anche a Imola e Mugello. Qual è il sapore speciale delle piste “old school”?
Rispetto alle piste disegnate al computer, le piste old style sono caratterizzate da una grandissima personalità, un’anima. Siamo sicuri di aver mantenuto, anzi, amplificato i tratti distintivi di Zandvoort.
Ingegnere, ma anche aspirante pilota. Quanto ha influito nascere nella motorvallley?
Ho ereditato la passione in famiglia. Il mio nome è già un programma. Mio padre era un grande tifoso di Giacomo Agostini mi ha chiamato chiamato Jarno, da Jarno Saarinen, e mio fratello Heikki da Mikkola, campione di motocross negli anni Settanta. La mia famiglia non aveva soldi per farmi fare il pilota così ho studiato ingegneria. Tutto è iniziato perché volevo costruire un autodromo a Reggio Emilia. Il progetto fu approvato ma mai costruito. Si chiamava Dorodi, due ruote in dialetto, per 8 anni ho girato il mondo per studiare i circuiti spendendo tutto quello che guadagnavo. Poi sono iniziate le prime collaborazioni. Le più longeve sono forse Imola e Singapore, con cui collaboriamo da 8 anni. La sfida più grande però è stata sicuramente Zandvoort.