“Raikkonen's third and... is that Glock? Is that Glock going slowly? It is! That's Glock!”. Esistono frasi, nel giornalismo sportivo, destinate a diventare proverbiali. “Is that Glock?”, nel Regno Unito, è una di quelle. 2 novembre 2008, Gran Premio del Brasile, circuito di Interlagos, ultima gara nel calendario della Formula 1, decisiva per il Mondiale. In cabina di commento, per la britannica ITV, il telecronista James Allen e Martin Brundle, che gli amanti del vintage ricorderanno alla guida fra le altre di Tyrrell, Benetton e McLaren tra gli anni Ottanta e Novanta. È proprio quest’ultimo ad accorgersi per primo di quanto sta accadendo all’ultimo giro, a poche curve dal termine, quando la regia internazionale mostra la lotta tra Timo Glock (Toyota), Sebastian Vettel (Toro Rosso) e Lewis Hamilton (McLaren), una battaglia feroce per le posizioni dal quarto al sesto posto. Già, perché là davanti Felipe Massa, su Ferrari, ha già vinto il Gran Premio, mentre Alonso su Renault e Raikkonen sull’altra F2008 si sono spartiti seconda e terza posizione. Alla vigilia della gara, Hamilton è primo a 94 punti, Massa secondo a 87, e a quel punto il titolo mondiale sembra assegnato: Massa ha tagliato il traguardo tra il boato dei brasiliani e si è portato a 97 punti (la vittoria, allora, portava 10 punti), Hamilton ha bisogno almeno della quinta posizione (4 punti) per restare davanti. Solo che Vettel non lo lascia passare, ne ha ancora. Poi, ecco le telecamere, impietose.
“Is that Glock? Is that Glock going slowly? It is! That's Glock!”.
“ Oh my goodness me, Hamilton's back in position again!”.
Il problema non è Vettel, è Glock che rallenta, le sue gomme da asciutto non tengono la pista. Doppio sorpasso. Traguardo: Vettel quarto, Hamilton quinto, nel box di Massa si festeggia ma qualcosa evidentemente è saltato; c’è Hamilton a quota 98, è Hamilton il campione del mondo, è la sua prima volta. Di lì polemiche, rivisitazioni, complottismi vari ed eventuali per quello che, comunque, resta uno dei finali più clamorosi della storia della Formula 1.
Hamilton, ferrarista in pectore, è stato chiamato dal 2025 per fare risorgere quella stessa Ferrari della quale proprio lui, in qualche modo, era stato il killer. Quei pochi secondi di gioia effimera e grottesca di box, Massa e famiglia sono stati infatti gli ultimi della Ferrari: quel 2 novembre 2008, per mano del britannico, terminavano anche i postumi dell’era Schumacher, dal momento che quello era anche l’ultimo giorno del regno di campione del mondo di Kimi Raikkonen. Da allora mai più un ferrarista ha vinto un titolo piloti, mentre Hamilton ne ha vinti altri sei e, in dieci stagioni su quindici, è finito davanti a entrambe le Ferrari (undici su diciassette se si tiene conto dell’intera carriera). Vero è che Maranello, se non altro, in quel 2008 vinse il titolo costruttori, ma appunto fu l’ultimo perché, mentre la carriera di Hamilton spiccava il volo, con lui lo facevano i motori Mercedes, poi i Renault di Red Bull (e Vettel alla guida), di nuovo Mercedes e Red Bull (Verstappen), addirittura la Brown di Button. Tutti, ma la Ferrari e i ferraristi no, loro no. Così, come nei gialli, è destino: l’assassino tornerà sul luogo del delitto. Ma sarà vestito di rosso. Basterà?