La ritualità è in ogni cosa, in Formula 1. In quello che un meccanico può fare e in ciò che invece non può toccare. Nella vestizione del pilota, che sa di non dover sbagliare neanche lì, quando indossa le scarpe o sistema il casco. C'è una ritualità nelle superstizioni di chi corre, nel linguaggio del corpo di chi abita il muretto, il paddock, il box.
Ad Abu Dhabi, al tramonto della stagione più incredibile della storia della Formula 1 moderna, la ritualità è stata l'unica cosa rimasta intatta. Chris Horner che guarda Max Verstappen sbagliare la partenza più importante della sua vita e batte il piede sotto allo sgabello, il brutto segno inconfondibile di quando le cose si mettono male in casa Red Bull. Lewis Hamilton che si lamenta delle condizioni delle sue gomme, pur sapendo che tutto è perfetto, tutto sta andando nel modo giusto e l'unico modo per scacciare i demoni dalla sua testa è condividerli con la sua squadra.
La ritualità, ad Abu Dhabi, ci ha permesso di stare ancorati alla realtà. Perché tutto il resto, qualsiasi cosa abbiamo visto in questo finale, ha altrimenti solo a che fare con l'immaginazione. Con la trama di un libro, la sceneggiatura di un film, la fantasia di un tifoso che non si sarebbe potuto spingere fino a lì.
A Max Verstappen che, con tutte le carte giuste per passare indenne alla curva uno, sbaglia e regala la leadership a Lewis Hamilton. Il bambino cresciuto per trovarsi lì, in quel posto e in quel momento, che per la prima volta in carriera deve fare i conti con la pressione. Lui che in Olanda, davanti a un mare di tifosi, non ha mostrato emozione, lui che corre perché correre è ciò che gli è stato insegnato, per cui ha lavorato prima di tutti gli altri, più duramente di quanto possiamo anche solo immaginare.
Lui, il pilota che mai ha ceduto all'ansia, sbaglia e inserisce la prima marcia troppo presto, causando un rallentamento al via che è niente, visto da fuori, ma che è tutto, per chi vive al millesimo di secondo.
E dove gli altri sbagliano si sa, Lewis Hamilton non commette errori. Gestisce le gomme, supera un Sergio Perez disposto a tutto pur di rallentarlo, fa da solo ciò che in Red Bull fanno in due, con un gioco di squadra a cui Lewis deve rinunciare con Bottas grande assente - seppur presente - nella sua ultima gara in Mercedes.
Da lì, non c'è speranza. Il titolo è suo, di nuovo. Non ci sono strategie o rischi che tengano. Non c'è speranza di poter battere il pilota più forte, con l'auto più competitiva, senza colpi di scena improvvisi. Non c'è modo di potergli togliere l'ottavo titolo mondiale dalle mani, quello che lo consacrerebbe - definitivamente - come il più vincente di tutti i tempi.
Ed è qui che entra in gioco la fantasia. Perché una safety car a cinque giri dalla fine dell'ultima gara, dell'ultimo Gran Premio della stagione, non può avere a che fare con la realtà. Non se, con un rocambolesco gioco dei commissari di gara, che si dimostrano ancora una volta inadatti a un ruolo troppo importante in una stagione così concitata, la safety car spegne le luci a un giro dalla fine del mondiale, dando a Verstappen la possibilità che aspettava.
Due bambini, uno contro l'altro, per un'ultima volta. Uno che sogna di arrivare dove nessuno è mai arrivato, all'ottavo titolo mondiale, l'altro che combatte per il primo, per dimostrare che tutto ciò che ha fatto, tutto ciò a cui ha rinunciato, vale un primo posto sul podio. Un premio, un riconoscimento, una pacca sulla spalla.
Due storie straordinarie da scrivere, un solo vincitore. Le gomme perfette, arrivate dopo un pit stop rischiosissimo, aiutano Max Verstappen in quell'ultimo giro che vale tutto. Perché i mondiali si vincono sotto la bandiera a scacchi e lì, per primo, davanti ai fuochi d'artificio di Abu Dhabi, taglia il traguardo un ragazzo olandese di soli 24 anni.
Che piange come il bambino che non è mai stato e abbraccia un padre troppo duro, troppo severo, troppo adulto davanti al sogno di un pilota immaturo. Piange perché ora può piangere Max Verstappen, adesso sì, che può essere umano. Adesso che il viaggio in Formula 1, iniziato a soli 17 anni, lo ha portato a vincere il mondiale più assurdo della storia. E di padre ce n'è un altro, poco più in là, che asciuga lacrime diverse da quelle di Max. Anthony Hamilton culla il suo Lewis, ragazzo cresciuto tra record e premi, nel dolore incolmabile dell'aver fallito lì dove tutti - lui compreso - si aspettavano non potesse fallire mai
La fantasia non si sarebbe spinta così in là, a disegnarli opposti e uguali, nemici perfetti. A immaginare le lacrime, le emozioni, i padri presenti e assenti. La fantasia non avrebbe scritto l'abbraccio dello sconfitto che cerca il vincitore, in una sportività d'altri tempi. Perché neanche lei avrebbe saputo regalarci Lewis Hamilton e Max Verstappen, i protagonisti del mondiale di Formula 1 2021.