Damon Hill era l'unico maschio. Il figlio di mezzo, il perno dell'attenzione. I fotografi lo avevano puntato da subito, da prima che riuscisse a reggersi in piedi o a pronunciare correttamente la parola Formula 1. Papà corre in Formula 1, quasiasi cosa volesse dire per lui, per un bambino così piccolo.
Papà è Graham Hill, tutti amano Graham Hill. Mamma Bette lo portava, insieme alle sorelle, in giro per gli autodromi di tutta l'Inghilterra, anche in giro per l'Europa quando l'occasione lo permetteva, e lì iniziava per Damon il circo dell'attenzione. Lo mettevano seduto nella macchina del padre, lo costringevano a posare in bella vista nel box, ad indossare piccole tute da pilota, a sorridere mentre Graham fingeva, a sua volta, di spiegargli qualcosa, di mostrargli un modellino di auto da corsa, un piccolo sé.
Perché Damon lo sapeva, lo aveva già capito da tempo, che nonostante si ritrovasse spesso al centro di un'attenzione non voluta e non richiesta, il fulcro era comunque, solo, suo padre. Graham che vince, Graham che batte ogni record, Graham che è affascinante, magnetico, che sposta l'attenzione. Non era un pessimo padre, neanche un pessimo uomo, ma era concentrato su un successo di cui gli altri si ritrovavano semplici spettatori.
Sua moglie Bette, i suoi tre figli, la vita che si erano costruiti insieme. Camminavano tutti sul riflesso di un mito, di uomo che ha contribuito a disegnare l'immaginario del motorsport in anni complessi, senza regole, al limite della morte. Damon se li ricorda, i giorni più scuri di quella vita di premi, champagne e podi. Si ricorda il fumo di un incidente in lontananza, la mamma che li prende e il porta via, le poche spiegazioni. Si ricorda il giorno in cui, davanti alla televisione, aveva letto il nome di Jim Clark. Era morto, zio Jimmy. L'amico del padre, quello che giocava con lui e lo faceva ridere con il suo accento scozzese. Damon era piccolo ma non così piccolo da non saper leggere: il campione, il pilota, Jim Clark era morto. Si ricorda anche della reazione di mamma Bette quando, entrando nella stanza, aveva appreso la notizia dalla voce stridula del figlio.
Damon si ricorda bene dei giorni no di Graham, del silenzio che regnava in casa quando lui c'era ma, diversamente dal solito, non se ne stava a parlare per ore e ore al telefono con tutti, mettendo in mostra il proprio charme. E si ricorda i giorni no di Bette, schiacciata da un marito che in tutto quello che faceva era fatto di eccessi. La tensione di un'esistenza in cui il motorsport era davvero, per definizione, pericoloso. In cui scegliere di correre era prima di tutto una questione di coraggio e poi, più in là, di talento. E non ci pensava Damon a diventare, un giorno, come suo padre. Lui che gli autodromi li aveva visti tutti, che aveva conosciuto prima degli altri il peso della stampa, della notizia, del dolore e del successo. Lui non voleva, semplicemente, diventare un pilota di Formula 1. Gli piaceva certo, a quale bambino non sarebbe piaciuta? Ma accettare di ripetere tutto? No, quella era un'altra storia.
Il ritiro di Graham, la fondazione di una sua scuderia, avevano contribuito a ridare una sorta di stabilità alla vita di una famiglia abituata a seguire i ritmi folli del motorsport. Ma a cambiare il destino di tutti, soprattutto quello di Damon, il figlio di mezzo, ci penserà una notizia sentita davanti alla televisione di casa in una sera di fine novembre nel 1975. Come con Jim Clark, ancora una volta, solo che in questo caso - almeno all'inizio - manca chiaro ed evidente il nome della vittima. Sono le dieci di sera del 29 novembre 1975, Damon ha quindici anni e un giornalista elenca in modo schematico i pochi dettagli di un incidente aereo appena avvenuto: aereo leggero, vicino all'aeroporto di Elstree, capo da golf di Arkley, vittime.
Ci vuole poco a capire: Graham, di ritorno dal Paul Ricard con il team della sua squadra, è morto in un incidente aereo mentre si trovava alla guida del suo Piper Aztec. Sei vittime, nessun superstite. Sono passati 47 anni da quel giorno. Damon Hill ha annunciato alla madre la morte del padre, ha fatto i conti con l'immagine inarrivabile di un campione scomparso, ha scelto di cambiare idea, di provarci, di diventare un pilota di Formula 1. Ha vinto un titolo mondiale, si è ritirato, è andato avanti. 15 anni di terapia, ha spiegato sui social, gli sono stati necessari per elaborare il lutto del padre e tutto quello che inevitabilmente ha portato con sé. 15 anni per capire che essere Damon, e aver scelto una carriera in Formula 1 che pensava di non voler, non lo rendeva necessariamente un'estensione di Graham.
Perno di un'esistenza nuova, senza un sole verso cui tendere, senza un centro a cui guardare, Damon si è ritrovato forse per la prima volta, davvero, un Hill. Un pilota, un uomo, un campione con un destino davanti a sé tutto da scrivere. Non quel ragazzino spaventato di fronte al vuoto di un lutto, non quel bambino affascinato dal suo mito, suo padre.