Quando Valentino Rossi, nel 2015, ha perso l’ultimo titolo mondiale per cui è stato davvero in lotta, ha attaccato Marc Marquez. È stato plateale e intransigente, duro, sportivo. Poi però ha continuato a correre e a provarci. Ad attaccare lo spagnolo anche, nonostante qualche stretta di mano al parco chiuso incoraggiata dall’adrenalina del dopo gara. Dopo il GP d’Argentina, nel 2018, Rossi disse alla stampa che “stare con lui in pista mi fa paura, devono intervenire”. Nonostante tutto ha continuato per anni. Perché Vale aveva ancora fame e il ritiro, a cui racconta di aver pensato per la prima volta al Mugello nel 2019, era ancora un pensiero lontanissimo, una barzelletta messa in giro dagli altri. Valentino è passione, fame, Valentino è oltre. Proprio come Marc Marquez. Il Cabroncito è tornato ad Austin con l’attitudine di un tossico che ci ricasca, uno che non ascolta i consigli e il fisico ma soltanto la vocina che gli chiede un altro po’ di emozioni. In conferenza stampa, giovedì, aveva la faccia di uno disposto a tutto pur di ritrovare il godimento: anche parlare a lungo con i giornalisti, comprensibilmente ossessionati dall’infortunio, e farsi vedere in difficoltà in un circuito che, da sempre, lo ha visto fare un mestiere diverso da tutti gli altri. Marquez si è trovato ad ammettere candidamente che no, non sta pensando troppo alle conseguenze di un’altra botta come quella di Mandalika: “Se sono qui è per correre - ha raccontato - non riesco a pensare a cosa potrebbe succedere con una caduta. So che c'è un rischio, ma è la mia passione e io sono qui per correre, non per pensare agli infortuni".
Fame da fuoriclasse quindi, che è la fame morbosa di chi non mangia da giorni. La stessa che ha reso grande Valentino Rossi. Lui e Marc sono uguali, entrambi animali da competizione disposti a tutto per vincere, dal massacrare gli avversari a sopportare i sacrifici. Di Valentino lo hanno ripetuto spesso nel suo ultimo anno da pilota, dal padre Graziano a Loris Capirossi, di Marc Marquez lo ha sempre detto Valentino: questo è spietato, non gli importa di nulla. Casey Stoner ha smesso di correre perché non si divertiva, Jorge Lorenzo l’ha fatto quando ha avuto paura, entrambi erano soddisfatti di aver vinto abbastanza. Rossi e Marquez no, l’imperativo è sempre stato continuare, provarci, sordi a tutto tranne che alla voglia di andare forte: passione appunto, ma una passione a metà tra il piacere e la malattia.
Certo, è più divertente e spensierato Vale, ma vallo a dire a chi ci ha corso contro per lo stesso obiettivo. A Jorge Lorenzo che si è trovato un muro nel box, a Sete Gibernau che dopo aver vinto una gara - per un errore di Rossi che sbagliò a mettere una marcia all’ultima curva - si sentì dire che non avrebbe mai più vinto un Gran Premio. Valentino Rossi non si è ritirato a trent’anni dopo l’infortunio al Mugello nel 2010, non lo ha fatto nemmeno dopo l’esperienza in Ducati quando ne aveva tutte le ragioni. Poteva farlo dopo il finale del 2015 o dopo il 2020, quando Yamaha lo ha spedito nel team satellite senza tanti complimenti. Niente.
Per convincere Rossi ci sono voluti una stagione disastrosa, una figlia in arrivo e pure il covid a fargli sapere che si può vivere anche senza MotoGP. Perché nemmeno l’età e tutte le noie della vita d’atleta l’avevano convinto. Ecco, Marc Marquez è come lui: attitudine, fame e passione. E anche lui poteva ritirarsi a fine 2020 dopo i problemi al braccio dati dall’infortunio di Jerez così come poteva farlo dopo l’infortunio e la diplopia dello scorso novembre. Aveva tutte le ragioni, per l’ennesima volta, di farlo la settimana scorsa. Invece non gli basta sapere che un’altra caduta potrebbe rovinargli la vita per sempre, né tantomeno gli bastano 8 titoli mondiali, svariati milioni di euro in banca e lo status di fuoriclasse. Gli serve di più. Questo è Marc Marquez e questo è sempre stato Valentino Rossi, così simili l’uno all’altro da odiarsi profondamente.