La pappa pronta non esiste o se esiste non sfama e bisogna comunque imparare a mangiarla. Loro hanno gestito la fame e hanno pure imparato a mangiare. Piano, senza esagerare e, soprattutto, con la consapevolezza che il conto l’avrebbero pagato maggiorato. Chi? Mick Schumacher e Luca Marini. Uno è il “figlio di”, l’altro è il “fratello di”, uno col peso del più grande da portare sull’abitacolo della macchina, l’altro col peso del più grande da mettersi sul sellino della moto. Partenze simili, problemi analoghi, strade comuni e, ora, anche stesso destino: arrivare nello stesso anno nella massima espressione delle loro discipline: Mick in Formula 1, Luca Marini in MotoGP. Si somigliano anche un po’, non tanto per i capelli biondi e gli occhi chiari, ma per un carattere non certo guascone e un’aria eternamente concentrata, da due che devono stare sempre sul pezzo. E che ci stanno.
E’ vero: hanno avuto più possibilità, soprattutto economiche e nel motorsport contano e contano tanto; è vero pure che sono nati respirando motorsport e quindi hanno potuto contare su maggiori stimoli, ma pensare che sia stato tutto più facile è da bottegai di paese, in perfetta tradizione italiana. Perché anche ciò che si acquista a buon prezzo non può essere rivenduto con un ricarico che non sia aderente al valore reale. Messa così è un po’ complicata, ma il punto è molto semplice: non si arriva ai vertici, che sia MotoGP o Formula1, se non vali niente e l’aiutino conta solo fino a un certo punto. Poi diventa zavorra, perché non puoi più permetterti neanche il lusso di fallire. E sul piano umano questo pesa ancora di più che sul piano sportivo. Mick Schumacher ha più volte raccontato che all’inizio della sua carriera si iscriveva alle corse con i kart usando il cognome della madre. Luca Marini ha potuto contare comunque su un altro cognome, ma non è poi stato tanto diverso per lui. “Quando dicono ‘il fratello di’ non sono dispiaciuto, perché Valentino è mio fratello e figuriamoci se non ne sono orgoglioso – ha detto in una recente intervista Marini – ma allo stesso tempo provo dispiacere per il mio babbo. Perché era lui che mi accompagnava, era lui che mi portava nei circuiti ed è con lui che ho iniziato. Come tutti gli altri”. Come-tutti-gli-altri. Solo che le distanze te le annulla la malizia della gente, anche quando tu hai cercato di metterle. E loro, Mick Schumacher e Luca Marini, le hanno messe in tutti i modi. Non per vergogna, sia inteso, e nemmeno per mancanza di rispetto verso il proprio sangue, ma per senso di indipendenza.
Il disconoscimento del talento, davanti ai nomi di questi due ragazzi come anche di altri che si sono trovati a gestire lo stesso peso, è difficile da gestire ed è figlio di un modo di interpretare la fortuna degli altri che qualcuno, tempo fa, aveva rinominato come “egualitarismo risentito”. Davvero c’è chi pensa che Mick Schumacher sia arrivato in Formula 1 perché è il figlio di Schumacher? O che Luca Marini sia arrivato in MotoGP perché è il fratello di Valentino Rossi? Motivi che se mai hanno avuto un valore è stato all’inizio, giusto per i primissimi passi, perché chiunque conosce il mondo del motorsport, anche a livelli bassissimi, è ben consapevole che se non c’è un valore di fondo finisci bruciato. Magari, se paghi, corri ancora e nessuno ti caccia, ma di certo non cresci e non avanzi. L’ultimo esempio è arrivato proprio dal motomondiale, con il figlio di Pons (l’ultimo ad averci provato della famiglia) che ha annunciato la fine della sua carriera a soli 25 anni: il cognome o il sangue non contano niente di niente se non c’è la sostanza. E, anzi, la sostanza di chi ha cognome e sangue evocativi deve essere maggiore, come se questi piloti, ma vale per gli sportivi in genere, avessero un avversario in più da sorpassare. Sempre e prima di ogni curva.
“Non conosco il percorso di Mick Schumacher – ha detto ieri, nell’intervista rilasciata a Tuttosportm Luca Marini - Il mio è stato di tanta gavetta, partendo da zero con il mio babbo. Quando mi guardo indietro penso di aver fatto davvero tanta strada, consapevole però che voglio e devo farne ancora altrettanta. Non ho certo avuto le moto migliori perché ero il fratello di Valentino, come forse qualcuno pensa, ma mi è servito perché ho imparato cosa significa il sacrificio e mettere tutto te stesso in quello che ami”. A costo di non vedersi riconosciuto alcun merito, a costo di rinunciare alla vita da nababbi che avrebbero potuto permettersi, godendosi sì il cognome e il sangue che hanno e girandosi i pollici dalla mattina alla sera. Invece sono scesi sull’arena, senza corazze e, anzi, con una carta di identità tutta da compilare tranne in una sola voce: “segni particolari”.
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