E' come il mal d’Africa, appena conclusa non vedi l’ora di tornare. La Dakar. E’ il sogno nel cassetto che custodisci sin da bambino, è una passione da condividere con gli amici, è una foto postata sui social con tanto di scritta: io c’ero. Perché “le Dakar est le Dakar”. Sogno, polvere e sofferenza dove arrivare al traguardo è già un successo.
Da sempre viaggio verso l’ignoto e una straordinaria avventura umana che richiede più di un pizzico di follia, anche quest’anno a gennaio si ripete un rito che neanche il tempo è riuscito a scalfire. Oggi, 5 gennaio 2024, ha preso ufficialmente il via la 46esima edizione del Rally più duro al mondo da Al Ula, in Arabia Saudita, e vedrà il traguardo a Yanbu, sulle rive del Mar Rosso dopo 7.891 km di piste, dune e passaggi rocciosi, compresi 4.727 km di prove cronometrate.
Dopo l’avventura africana (1978-2008), e il decennio sudamericano (2009-2019), dal 2020 la regina dei rally raid si è spostata in Medio Oriente. Il GPS ha sostituito mappe e bussole, i pro dormono nei motorhome, ma l’avventura rimane. Lo sanno bene gli amatori, perché per loro era stata pensata la gara dal suo ideatore Thierry Sabine quando si era perso nel deserto libico durante il rally Abidjan-Nizza. Un anno dopo, il 26 dicembre del 1978, convinse 182 piloti a darsi appuntamento sotto alla Tour Eiffel, davanti al Trocadero: il mese seguente alla prima edizione della Parigi-Dakar arrivò al traguardo meno della metà dei concorrenti (74). Oggi i concorrenti sono 770, spinti da un sogno, chiamasi sete di vittoria o sfida personale, ma ognuno ha un buon motivo che lo spinge a lasciare la zona di comfort per mettersi a dura prova.
Ma cosa spinge oggi un appassionato di moto a spendere dai 70 ai 100mila euro per soffrire per due settimane, a mangiare polvere, rompersi le ossa, svegliarsi all’alba con il freddo e rischiare la disidratazione durante il giorno?
Per Skyler Howes, oggi pilota del Team Monster Energy Honda ha voluto dire vendere tutto per partecipare alla sua prima Dakar nel 2019 da privato. “La Dakar è una corsa estrema per definizione perché ti spinge costantemente a superare i tuoi limiti”, racconta questo simpatico ragazzone americano dello Utah con cappello da cowboy e baffi all’insù. “È buffo dirlo, ma guidare è la mia zona di comfort. Non mi preoccupa essere sulla moto anche 7-8 ore al giorno, ma i lunghi e umidi trasferimenti mattutini quando è ancora buio e il termometro segna i 3 gradi non sono certo la mia zona di comfort, o l'uso dei bagni pubblici e delle docce fredde al bivacco, ma soprattutto ricordo il momento in cui, come privato, dovevo trovare il budget per cui ho dovuto organizzare una raccolta fondi oltre ad essere stato costretto a vendere tutto. Questo era sicuramente fuori dalla mia zona di comfort! Quell’anno sono stato costretto ad abbandonare alla sesta tappa. Bye bye. Ma non mi sono arreso, l’anno dopo sono tornato ed ho finito nono”.
La storia di Skyler non è l’unica. Resta mitica l’avventura dell’inglese Chris Cork, che mise in vendita la sua casa di Devon per correre la Dakar. Anche lui costretto ad abbandonare il quarto giorno dopo essersi rotto una vertebra. L’anno dopo non partecipò, finché la moglie lo costrinse a tornare per completare l’impresa iniziata perché non poteva più vederlo triste.
“Se vuoi provare a vincere devi uscire costantemente dalla tua zona di comfort, fare cose che non vorresti”, racconta Brabec.Per Ricky Brabec, californiano sempre del Team Monster Energy Honda è un sogno che si avvera. La chiamata della Honda arrivò nel 2016 quando si trovava a letto con le ossa del collo rotte. Non esitò un attimo. Allora 24enne, era una promessa nello scenario del desert racing americano. Nono al debutto, il suo coraggio gli ha dato ragione. Nel 2020 è stato il primo pilota americano a vincere una Dakar.
Il livello di sopportazione del dolore distingue l’uomo comune da un supereroe. Beh, alla Dakar ci sono solo supereroi. “Sono passati cinque anni, ma ne soffro ancora”. Il cileno Paolo Quantanilla, insieme a Joan Barreda, è forse il pilota con la soglia più alta del dolore mai conosciuta. “Perù 2019, ultima tappa. Mi stavo giocando la vittoria con Toby Price quando sono caduto e mi sono fratturato entrambe le caviglie. Ho stretto i denti e sono arrivato alla fine”, racconta Pablo. Quell’anno chiuse quarto. “Pensavo di dover smettere tanto era grave la lesione, invece ho stretto i denti. Da allora sono arrivati due secondi posti e oggi sono a lottare per la vittoria”. Nessuno torna uguale da una Dakar. “Questa la lezione che ho imparato: continuare a inseguire i propri sogni, disfrutando el camino”, sorride il cileno di Viña del Mar. “la Dakar è più di una corsa. E’ uno stile di vita”.
Per Lois D’Abbadie è il sogno nel cassetto custodito sin da piccolo. Classe 1983 e unico rappresentante della Reunion Island, colonia francese. “La Dakar è il sogno più grande per tutti i francesi. Sono sempre stato appassionato di moto ma ho cominciato a guidare solo 8 anni fa con gli amici. L’abbiamo presa sul serio e lo scorso anno abbiamo debuttato sulla Dakar. Pronti, via sono caduto il primo giorno su un tratto veloce e roccioso. Ho chiamato l’elisoccorso e il dottore ha diagnosticato la frattura alla clavicola. Volevo continuare a tutti i costi così ho chiesto al dottore di fissare la frattura con il nastro americano da meccanico che portavo con me. Quel giorno avrò percorso ancora 200 km. Non mi sarei fermato nonostante il dolore lancinante, ma la lesione era troppo grave e sono dovuto volare a casa per operarmi. Oggi sono qui per completare l’impresa”.
Anche per il nostro Gioele Meoni, figlio di Fabrizio, due volte vincitre della Dakar quando ancora si correva Africa, si tratta di portare a termine una promessa. “E’ una sensazione fantastica anche se questo viaggio non è come lo avevamo pianificato quando avevo dieci anni. Era un’impresa che progettavamo di fare insieme e invece il babbo mi seguirà da lassù e sono sicuro che mi darà una mano. A distanza di 18 anni ho deciso di fare tanti sacrifici e di fare uno sforzo emotivo da parte di tutta la mia famiglia. Varcare la porta del bivacco da pilota mi ha fatto venire la pella d’oca. Bussando alla porta degli sponsor di Fabrizio e ancora di più al bivacco mi sono reso conto di quanto aveva seminato di bello. Questa gara richiede dedizione assoluta e mia mamma Elena si è fatta garante affinché arrivassi preparato. Correrò nella classe Malle moto, senza assitenza, perché questo era lo spirito delle origini. Nel momento della presentazione Gioele era seduto tra due leggende: Stephane Peterhansel e Carlos Sainz. “Peterhansel è un eroe dei 4 mondi perché oltre ad aver corso in Africa, Sud America e Arabia, ha vinto in moto e in macchina, anche se a casa mia era sempre visto come l’avversario da battere per cui io facevo sempre il tifo per il babbo. Carlos Sainz tanta roba, è un pilota che ammiro tantissimo”.
Oggi, 6 gennaio, si parte sul serio: 405 km di speciale per un totale di 527 km da percorrere. E la corsa è solo iniziata.