In Formula 1 si va contro i limiti, sempre. Lo fece Nigel Mansell a Dallas nel 1984 spingendo la sua Lotus al traguardo sotto il sole di luglio del Texas, svenendo per la fatica al fianco della sua monoposto. Lo fece Ayrton Senna all'inizio del 1991, per regalare e regalarsi una gioia brasiliana mai avuta, vincendo il Gran Premio di Interlagos nonostante i problemi alla sua McLaren, distrutto e in lacrime sul gradino più alto del podio. Come loro lo fecero decine e decine di piloti nella storia di questo sport. Conoscersi, sapere fin dove ci si può spingere, chiedere a se stessi ciò che si è disposti a dare per la gloria del ricevere in cambio il successo, la vista perfetta dal gradino più alto del podio. Così è il motorsport, terra di folli disposti a tutto, di ragazzi che conoscono bene i rischi e la storia, i dolori e le tragedie.
Eppure questa non può e non deve essere la spiegazione per giustificare qualsiasi cosa. Per dirsi che sì, il motorsport è pericoloso, e quindi va bene così. Perché a volte non si tratta di sport ma di organizzazione, serietà e controllo. In Qatar qualcosa domenica è andato storto e i volti distrutti dalla fatica di metà dei piloti della griglia ne sono la testimonianza evidente, la prova di un limite che è stato passato. Non è la stanchezza che spesso gli troviamo addosso dopo fine settimana di gara come quello di Singapore, non è l'eroismo di un singolo che nella foga della competizione ha più di se stesso e contro se stesso, andandosi a prendere un risultato esaltante.
Qui parliamo di altro. Parliamo di George Russell e Lando Norris che, inquadrati negli on board sul rettilineo di gara, alzano le mani dal volante per far passare un po' di aria fresca e trovare sollievo dal caldo devastante delle monoposto. Parliamo di Logan Sargeant costretto al ritiro, debilitato fisicamente, impossibilitato a concludere la gara sulla sua Williams. Sono gli uomini del team a invitarlo a rientrare ai box, a dirgli "va bene così, non devi sentirti in colpa", lui che vuole il suo sedile per il prossimo anno, rookie sotto osservazione, che tenta di dare il tutto per tutto ma che è costretto a cedere: il fisico non regge là dove vorrebbe reggere la testa, il cuore.
Parliamo di Esteban Ocon che, al quindicesimo giro di gara, si sente male e si vomita nel casco. Sta zitto, non avvisa i suoi uomini, continua a correre e finisce la gara in zona punti, avvisandoli del dramma fisico solo alla fine del Gran Premio. Sono tanti quelli che resistono in silenzio e che, una volta scesi dalle monoposto, sono costretti ad essere accompagnati al centro medico: Lance Stroll, che si accascia accanto alla Aston Martin, Alex Albon, che ha bisogno di aiuto per scendere dalla sua Williams, Nico Hulkenberg e così via. Oscar Piastri, rookie d'oro in un weekend perfetto, si sdraia nella stanza del retro podio in attesa della premiazione e da lì vorrebbe non alzarsi più, a terra accanto al campione del mondo Max Verstappen, visibilmente devastato dalle stesse fatiche.
Si assomigliano tutti, nella volontà di dare più di loro stessi, nella fatica di chi ha avuto paura. Paura perché la vista non reggeva, confessa Leclerc, paura perché per un po' si ha avuto davvero il terrore di svenire in pista, ha ammesso Russell. Paura perché 57 giri così non finivano più e niente sembrava alleviare quella sensazione di distruzione fisica. Questo non è eroismo, non è magia. E non si può lasciare a dei ragazzi drogati di agonismo la possibilità di arrivare così al limite, tutti insieme, tutti nello stesso momento. A questo serve la FIA, a mettere dei paletti ben chiari identificando vincoli e pericoli, per non trasformare la Formula 1 in un rodeo.
Ma allora perché, al netto delle normali problematiche già viste in condizioni di grande caldo e umidità in fine settimana come quello del Gran Premio di Singapore, quest'anno Losail ha presentato queste condizioni estreme? Il primo problema è la posizione in calendario del Gran Premio: nel 2021, ultima gara in Qatar per la F1, si era corso il 21 novembre, in un clima decisamente più mite, così come si farà il prossimo anno, quando la massima serie sbarcherà a Losail il 1 dicembre. Anche la MotoGP, consapevole delle temperature problematiche della zona, sceglie una data più consona per l'appuntamento del motomondiale: solitamente a marzo, all'inizio della stagione, mentre nel 2023 a fine novembre per i lavori di ristrutturazione della pista da poco conclusi.
Il secondo problema è da far ricadere nella decisione, confermata nella giornata di domenica, di procedere con l'obbligo di tre pit stop in gara per evitare possibili forature dopo i dati raccolti da Pirelli nella giornata di venerdì. Una scelta di sicurezza che ha causato però un Gran Premio ad altissima intensità in cui i piloti non hanno mai dovuto gestire le gomme ma hanno sempre spinto al limite delle loro prestazioni tra un cambio gomme e l'altro. Una situazione che porta, spiega Leclerc nel post gara, a "una frequenza cardiaca alle stelle e un controllo molto più difficile". Più intensità, più sforzo, più fatica. Il tutto in una pista già molto veloce come quella del Qatar che, in particolare nell'ultimo settore, richiede grande sforzo fisico.
L'unione di questi fattori, unito al weekend fisicamente più faticoso della sprint race, con due gare e due qualifiche in meno di tre giorni, ha dato il via a una reazione a catena di eventi che ha portato ai risultati - evidenti - sulla pelle dei piloti. Una prova di forza inutile, qualcosa di "simile all'inferno" confessa Verstappen, tra pericolo e paura in un tempo di ostentata grande attenzione alla sicurezza in pista. Non si tratta di coraggio, non si tratta di puro e semplice motorsport. E capirlo sarà il primo passo per guardare oltre.