Mai una mezza misura, mai uno strappo alla regola. Quando cresci com'è cresciuto Max Verstappen non hai tempo per le distrazioni, per le cose di un altro mondo. Sei verticale, bidimensionale, sei fatto per arrivare lì, all'obiettivo di sempre: vincere, vincere ancora, vincere sempre. Rischi di farti schiacciare dal peso di te stesso, stretto in quello che tutti hanno immaginato, voluto, per cui hanno speso soldi, tempo, impegno.
Max Verstappen è diventato grande con la tuta indosso, il casco in testa, con la sigla VER sempre sopra quella degli altri, due piedi ben piantati sul podio. Un padre di quelli a cui non si deve dire no, a cui è meglio non dare contro. Un caratterino difficile, il suo come quello di papà Jos, da sedare e mettere in ordine, per cercare di sovrastare gli altri, di essere il migliore. Che nel motorsport serve regola e controllo, prospettiva e sfida, in un equilibrio da funamboli senza rete. Ci ha messo un po', il piccolo Max, a imparare a camminare su quel filo, ad accettare la durezza di un padre con poche carezze nelle mani.
Eppure correre gli piaceva, gli è sempre piaciuto più di tutto il resto. Così quando è arrivato in Formula 1 a soli diciassette anni, tra le pressioni di media e stampa, di team e avversari, l'olandesino d'oro non ha arretrato di un solo passo. Non ha finto, non è cambiato: è stato aggressivo e disperato, si è fatto notare sotto il segno di quel "Mad Max" di cui nessuno poteva fidarsi, ha imparato a rispondere a tono a tutti quelli che tentavano di farlo vacillare, di fargli credere che non fosse il momento.
Troppi errori, dicevano. Troppa foga, troppi incidenti. Lui rispondeva granitico, ghignoso. Simpatico? Quasi mai. Una difesa, forse. Un'armatura costruita negli anni per sopravvivere, per non farsi schiacciare. Poi è arrivato il 2021, la sua prima vera occasione per vincere il titolo, il momento di mostrare tutto il meglio, di commettere meno errori, di moderarsi e moderare. Un mondiale vinto con un'ombra addosso, un primo titolo come spilla e macchia su quella tuta: Abu Dhabi, la FIA, il budget cap, il mondo dello sport contro.
Ma l'essere diventato campione, l'aver raggiunto un obiettivo che da sempre lo aveva inseguito, per Max è stato il definitivo cambio di prospettiva. Ingrana la marcia e va avanti, nessun segno di cedimento, nessun cambiamento. Ancora duro con chi lo critica, ancora feroce con chi prova a metterlo in difficoltà. Più rilassato, negli occhi e nei movimenti, più umano in una vita mai ostentata fuori dai circuiti. Una compagna, una bambina, un futuro davanti che prende in considerazione l'idea di non restare lì, in Formula 1, ancora a lungo.
Secondo qualcuno è una tecnica, un modo per attirare su di sé ancora più attenzioni, ma Max non ne ha bisogno. Non ha filtri in un mondo di uffici stampa e tagli di riprese, di interviste programmate e parole pesate al grammo. Avere a che fare con lui è una sfida continua, un'interrogazione, una sorpresa. Vincendo il terzo titolo, quello della consacrazione definitiva arrivato in Qatar in un mondiale chiuso in partenza, senza avversari e senza competizione, sorride e si rilassa, lasciando trasparire l'ombra di un'emozione.
Per molti è quello il problema di Verstappen, la lontananza dal mondo, l'attaccamento alla competizione più di qualsiasi altra cosa. Non piange, non grida, non assomiglia a nessuno. È libero, troppo adulto e troppo bambino, troppo aggressivo e troppo schivo. Troppo sempre, troppo tutto, tutto insieme. Bello, da tre volte campione del mondo, lì a fregarsene di chi lo vorrebbe diverso, di chi dice "non mi emoziona", di chi fa ricadere i suoi successi sugli imbrogli, sugli errori altrui, su una macchina che "farebbe vincere chiunque". Bello perché disinteressato: non gli interessa, non gli è mai importato. Libero, campione a modo suo.