Guardi Kimi Raikkonen correre in pista e camminare in giro per il paddock di Formula 1 e pensi che niente possa scomporlo, toccarlo, disturbarlo. E' stato chiaro tante volte sul suo futuro nel motorsport: "Smetterò quando non mi divertirò più, semplice".
Un pilota senza pressioni, senza fragilità. Uno che non sembra assomigliare neanche lontanamente a quei colleghi che, mangiati dall'ansia e dallo stress, hanno sofferto cambi di scuderie, delusioni, sconfitte. Kimi Raikkonen non è Sebastian Vettel, che da bambino prodigio dei tempi di Red Bull si è trasformato in un uomo più fragile, disincantato dalla delusione in Ferrari, l'amore di una vita intera. Kimi Raikkonen non è Nico Rosberg, che dopo la vittoria del titolo ha scelto la strada del ritiro, preferendo dedicarsi a una vita diversa senza il peso di dove dimostrare ancora qualcosa a qualcuno, stanco di una carriera che alterna successi e sconfitte.
Kimi Raikkonen non assomiglia a quegli atleti che, in questo 2021, stanno parlando liberamente del problema di stress e depressione che troppo spesso riguarda sportivi professionisti, fin da bambini soggetti a un livello di ansia e di competizione che, al culmine del successo, si ribella alla loro mente, restituendo attacchi di panico, crisi depressive e insuccessi sportivi.
O forse no. Forse anche un personaggio che tutti identifichiamo come l'emblema del menefreghismo come Kimi Raikkonen ha sofferto in passato degli stessi problemi, quando parlarne però era ancora un tabù, soprattutto in un mondo dominato dalla forza e dalla velocità come la Formula 1.
Già perché spesso quando si pensa al pilota finlandese ci si dimentica che a fine 2009, due anni dopo il successo mondiale con Ferrari nel 2007, Raikkonen scelse di ritirarsi dalla Formula 1. Un ritiro che, sappiamo oggi, fu solo momentaneo, e portò il campione finlandese a tornare al suo amore di bambino: il mondo dei rally. Parentesi che durò due anni, e che lo vide poi fare ritorno in Formula 1 per una carriera che continua oggi, nonostante i 42 anni di Kimi.
Una parentesi che qualcuno inizialmente sembrava far combaciare semplicemente con le poche possibilità offerte da team interessanti, scuderie in grado di apprezzare Raikkonen come un campione del mondo avrebbe meritato, ma anche una scelta che oggi sappiamo di dover cercare molto più a fondo.
Il ritiro di Raikkonen fu una pausa da tutto, uno stop forzato arrivato dopo essere diventato il migliore - campione del mondo con la scuderia più amata della storia di questo sport - e non aver saputo mantenersi a quel livello dopo il 2007. Un periodo nero da far coincidere con la consapevolezza dell'aver realizzato il sogno del Kimi bambino, un obbiettivo per cui l'intera famiglia, e in particolare il padre, ha fatto sacrifici per tutta la vita. Un momento costellato anche da problematiche personali, tra cui la separazione dalla prima moglie e l'insofferenza sempre più accesa verso paparazzi e gossip.
Un vero e proprio crollo mentale, che nel 2009 venne archiviato come segno di debolezza, periodo cubo e poco altro. Ma che oggi, alla luce di una nuova consapevolezza che deriva dal coraggio mostrato da atleti in crisi come Simone Biles, fa tornare a galla il ricordo di chi, come Raikkonen, da quel buio è già passato. E ne è uscito più forte.