Jason Dupasquier è morto a 19 anni ed è morto perché faceva il pilota. Non raccontiamoci che è il rischio che chi corre accetta ad ogni turno, ad ogni momento passato in equilibrio sulle pedane. Jason è morto perché così sono le corse. Bastarde e crude, ma così è anche la vita di chi non resta fermo a guardare. Com'era la sua.
È stata un’ingiustizia, e questo ci fa cercare disperatamente un colpevole. Qualcosa da cambiare, da rivedere per evitare che un ragazzo di 19 anni perda la vita. Ma non mancavano le vie di fuga come per il povero Luis Salom, non mancavano soccorsi tempestivi. Non è stata colpa del mezzo meccanico, come successe a Daijiro Kato e a tanti altri. E non è l’Italia delle tragedie del Mottarone o del Ponte Morandi. Ci voleva la superpole, dice qualcuno. Ma non è vero, perché se fosse successo in gara non sarebbe cambiato nulla.
La verità è che così sono le corse, anche se pensarci fa ancora più male. Lo sa chiunque ne abbia mai vista una, non c’è giustizia. Spesso c’è meritocrazia. Spesso vince il più veloce, il più astuto, il più coraggioso. Ma non è mai soltanto questo. Il dio delle corse fa quello che vuole e ha sempre l’ultima parola. Ecco perché i piloti, i team manager e i meccanici di tutto il paddock sono scaramantici. Anche se non hanno mai creduto nemmeno al meteo e lavorano con tecnica e dati, la pista gli ha insegnato che la sorte fa quello che vuole. Davanti al dio delle corse non c’è telemetria o tempo sul giro che tenga.
Nelle corse si muore e non c’è altro da aggiungere. Chi non avrebbe voluto correre ha fatto bene a dirlo. Ha fatto bene anche se poi ha corso lo stesso con la morte nel cuore, perché i piloti sono esseri umani e in giornate come questa non c’è il torto o la ragione. Queste sono le corse, lo show che deve proseguire. Implacabile, tremendo. Veloce.
Se continuare domenica non è stato giusto, a ben vedere non è stato nemmeno sbagliato. Correre per Jason che forse avrebbe voluto così, ma anche per tutti gli altri. Perché se cadi, in moto, la prima cosa che devi fare è tornare in sella. Funziona così anche se non sei caduto dalla moto, quando cadi e basta: devi ricordarti perché lo stai facendo. Ritrovare l’amore, la passione, la bellezza delle tue corse. La fatica per esserci. Non è una mancanza di rispetto per chi non ce l’ha fatta.
Le corse non si fermano davanti a niente, nemmeno davanti alla morte di un ragazzo di 19 anni. Ed è brutale per tutti. I piloti, nella domenica del Mugello, hanno corso pensando a questo. Un mondo malato che non si ferma, che ci porta ad un minuto di silenzio e poi ci manda a rischiare la vita a 340 chilometri all’ora. Così sono le corse. Odiarle non è sbagliato, maledirle nemmeno. Ma questo sono e questo saranno sempre.