A Jerez piove raramente, ma quando succede si aprono le cateratte del cielo. E c’era davvero un tempo da lupi in quel giorno del dicembre 1999 in cui Gian Carlo Minardi si trovò ad assistere ai test di un gruppo di giovani promettenti. Ma quello che stava per vedere l’avrebbe ripagato dell’umidità che sentiva nelle ossa. Uno di quegli aspiranti campioni si mise a danzare sotto la pioggia, giocando con la sua monoposto con una naturalezza insolente. Numeri che Minardi non aveva mai visto fare a nessun debuttante. Un talento singolare, diverso dagli altri: Minardi l’aveva capito subito, e aveva lottato con le unghie e con i denti per portarlo a Faenza. Oggi quel ragazzo, Fernando Alonso, compie 39 anni.
In bacheca vanta due titoli mondiali di F1: decisamente poco per un pilota dotato di un talento strabordante, che gli ha consentito negli anni di estrarre il massimo da vetture che definire penose è un atroce eufemismo. E Alonso gli eufemismi non sa nemmeno dove stiano di casa. È sempre stato sincero, pure troppo, in un mondo asettico e ripulito come quello della Formula 1. E anche spietato nei confronti dei team che hanno peccato di lesa maestà, non essendo in grado di agevolarlo nella corsa per la gloria, vuoi per mancanze delle monoposto, o per errori palesi di strategia. Alonso è uomo squadra, ma in un senso decisamente atipico del termine: fa squadra a sé, senza curarsi degli altri. L’asturiano sa essere brutale con chi gli lavora accanto. E non serve spulciare troppo negli archivi per rendersene conto.
Un episodio su tutti: l’ormai famigerato team radio in cui definì “GP2 engine” il motore Honda della sua McLaren. In Giappone, davanti a tutti i capoccia della casa nipponica, che, con il classico aplomb locale, non fecero una piega. Ma Alonso è anche capace di bassezze per stritolare gli avversari: per avere ragione dell’insolente rookie Lewis Hamilton, nel 2007 in Ungheria decise di trattenersi ai box più del dovuto in qualifica, bloccando il bambino prodigio per alcuni interminabili secondi, sufficienti a non consentirgli di agguantare la pole. Un capolavoro di malizia, un gesto subdolo che gli costò una penalità salata. Alonso, d’altronde, non si ferma davanti a nulla per far capire a tutti di che pasta è fatto.
Fernando Alonso è una belva. Pronto a divorarsi chiunque gli si pari davanti, specie chi cerca di metterlo in gabbia. E ad un certo punto la cattività in McLaren è diventata insopportabile per un inquieto come lui. Tanto da spingerlo a fuggire dalla F1, in mancanza di alternative degne del suo blasone. E così, facendo di necessità virtù, Alonso si è rivelato un istrione più che versatile, capace di destreggiarsi in categorie estremamente diverse tra loro. E se vincere la 24 Ore di Le Mans con una Toyota dominante è gioco facile, non lo è certo arrivare al traguardo della sua prima Dakar.
Ma ad Alonso è rimasto il chiodo fisso della F1: uno come lui, che sta invecchiando bene come un vino pregiato, non era ancora pronto per un pensionamento dorato lontano dalla categoria regina del motorsport. E allora, al diavolo la Triple Crown: si ritorna nel Circus con la Renault, a quindici anni dall’ultimo successo mondiale. Un’operazione nostalgia che difficilmente porterà Alonso a rinverdire quei fasti lontanissimi. Ma in pista, nonostante l’età, è ancora sublime, un piacere per gli occhi. Irritante e irresistibile, come solo i veri campioni sanno essere.