La Dakar è il rally più duro del mondo, ma il pippone sul senso della vita, sulla solitudine poetica del deserto, sul bisogno di cercare qualcosa che non sai cosa sia, lo lasciamo agli editori per bene. Qui facciamo anarchia&skincare, facciamo come ci pare e tendenzialmente lo facciamo senza ripulire troppo le giornate che scandiscono questa Dakar 2025 da tutte quelle cose che nel Motorsport non si possono dire, che secondo la Race Direction sarebbe meglio non dire, che i giornalisti sicuramente non dicono, che una signorina non dovrebbe dire, insomma quelle cose che mia madre quando le legge ci resta un po’ male. Scusa, mamma.
Perché la Dakar è come essere davanti allo specchio, solo che non puoi spegnere la luce e andare a dormire. La Dakar è una dimensione in cui sei obbligato a dirti la verità rispetto alla media che puoi tenere, rispetto a quali sono i tuoi veri limiti, perché principalmente devi sopravvivere e arrivare a domani. Se hai un punto debole con te stesso, questa è un’esperienza che te lo tirerà fuori con il forcipe. E’ come andare dallo psicologo a 300km/h, solo che le sedute costano un po’ di più e delle volte le senti come frustate nella schiena.
La Dakar è come la tipa più bella del liceo, te la vorresti fare tantissimo, non la conosci bene ma lo sai che ti piace, ti spertichi in una corte spietata eppure quando finalmente lei ci sta, è tua, tu sei lì e hai tutto quello che volevi, ma guardandola bene ti è passata la voglia di scopare. E essere scopata da uno che non ha voglia di scoparti è un’esperienza devastante, parlo con recente e lucida cognizione di causa.
La Dakar è così: l’hai pensata, l’hai voluta, l’hai sognata, ci hai investito un sacco di tempo, hai sputato soldi come una slot machine, e finalmente ci sei. Eppure dal momento dello shakedown passi la giornata a chiederti per quale malsano motivo ti sia venuto in mente di venire qui a dormire per terra assieme a altri 1.005 equipaggi in gara, shakerata dalle pietre dentro un camion per otto ore al giorno, con l’angoscia di non arrivare nel tempo limite ogni sera, con le ansie che quell’imponente gigante di metallo regga tutto il giorno.
Perché la Dakar sul camion? Non lo so perché, però guardalo: un camion è senza dubbio fatto di quello che ami, più l’acciaio. Può sfondare un muro, può aprire una pista e insieme un varco di luce, come direbbe Paola Iezzi. Un camion è un palazzo su ruote che si sposta e si tira dietro tutto, il mio nella fattispecie è un 6.000 di cilindrata con un motore Deutz Turbo 6 cilindri longitudinale, un serbatoio da 300 litri, pesa 5.300 kg, dentro ha i rollbar, i sedili da corsa, gli strumenti di navigazione e non c’è posto per appoggiare neanche un accendino.
Oggi si comincia davvero, oggi chiudiamo la valigia, prendiamo il volo che ci porta a Jeddah e poi dentro l’Arabia Saudita, a Bisha, il primo bivacco. Siamo tutti qui per lo stesso motivo, onorevolmente cocciuti contro i pronostici, contro la fisica, contro la meccanica, aspettando il momento per prenderci un pezzetto di questa storia.
La paura più grande è dedicare la propria vita a qualcosa senza che nessuno se ne ricordi, o no?
Domani si accendono i motori ed è tutto lì, in quella fiamma violacea che esce dallo scarico che tutti aspettano religiosamente in piedi: funziona, funzionerà.
Sul mio casco ho messo la Madonna di Guadalupe, perché stavolta per farla andare dritta serve davvero che guardino giù i Santi; ci ho messo le rose perché avevo un conto aperto con i fiori e le smancerie: ho passato una vita a dire che non sono da me, ma era un imbroglio; ci ho messo i carciofi, tanti carciofi. Il carciofo è un fiore, e mi sta simpatico da sempre: mi sono sposata con un bouquet di carciofi fioriti. Sì, nella compilation delle cazzate abbiamo anche il matrimonio. Un carciofo lo ho piantato a Kabul, nel giardino di quella che è stata casa mia e poi me lo sono tatuato, e anche questo è un file preso orgogliosamente dalla compilation di cui sopra.
Un Premio Nobel ha scritto un’ode al carciofo, e quando l’ho letta ho capito perché il carciofo e io siamo giusti l’uno per l’altra:
Il Carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
ispida edificò una piccola cupola,
si mantenne all’asciutto sotto le sue squame,
vicino a lui i vegetali impazziti si arricciarono,
divennero viticci,
infiorescenze commoventi rizomi;
la vigna inaridì i tralci dai quali sale il vino,
la verza si mise a provar gonne,
l’origano a profumare il mondo,
e il dolce carciofo lì nell’orto vestito da guerriero,
brunito come una granata,
orgoglioso.
E un bel giorno,
a ranghi serrati,
in grandi ceste di vimini,
marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno:
la vita militare.
Nei filari mai fu così marziale come al mercato,
file compatte,
voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade.
Ed ecco sul più bello arriva Maria con la sua sporta,
sceglie un carciofo,
non lo teme,
lo esamina,
l’osserva contro luce come se fosse un uovo,
lo compra,
lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe,
entrando in cucina,
lo tuffa nella pentola.
Così finisce in pace la carriera del vegetale armato
che si chiama carciofo,
poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo
la pacifica polpa
del suo cuore verde.
Pablo Neruda, 1954.