In Messico, nel 1987, Michele Alboreto appose un fiocco rosa sulla sua Ferrari F1-87. Era nata Alice, la sua prima figlia. Tre anni dopo, sarebbe arrivata Noemi. Nella fotografia di Michele neo-papà sorridente, c’è tutto Alboreto. Il grande amore per la sua Nadia - presenza elegante, profonda, sin da quando era un ragazzino - sublimato dall’arrivo delle sue piccole, oggi diventate donne. E la passione per quel mondo dei motori che avrebbe arricchito e permeato la sua esistenza fino alla fine.
Michele resta ancora oggi l’ultimo italiano ad aver vinto un GP con una Ferrari. Accadde in quel 1985 in cui accarezzò perfino il titolo mondiale, facendo scorrere un brivido sulla schiena dei tifosi della Rossa. Sembrava cosa fatta, ma era solo un’illusione infingarda. Perché la sua monoposto, sul finire della stagione, si fece capricciosa, inaffidabile. E Michele fu costretto ad arrendersi ad Alain Prost. Sarebbe rimasto alla Rossa fino al 1988, salendo sul podio di rosso vestito per l’ultima volta nel primo GP d’Italia senza l’uomo che lo aveva voluto in Ferrari, Enzo. Per Michele, aveva fatto un’eccezione alla regola che si era imposto: niente connazionali alla Rossa. Ma Alboreto era speciale, diverso dagli altri.
Gentile, disponibile, simpatico, era la faccia pulita di un movimento che avrebbe voluto aiutare, con un programma per i giovani talenti italiani che, se avesse davvero visto la luce, avrebbe potuto fare una grande differenza. Michele non veniva da una famiglia ricca. Riuscì ad imporsi con il solo talento, che attirò le attenzioni di un vero e proprio mecenate dei motori, il Conte Zanon, che gli trovò un posto alla Tyrrell, nel 1981. Un’impresa che sarebbe diventata sempre più difficile, dopo. Alboreto lo sapeva bene, quanto fosse complicata l’ascesa dei piloti italiani. Tanto da prevedere, correttamente, che dopo Giancarlo Fisichella e Jarno Trulli ci sarebbe stato il vuoto per anni.
Era talmente determinato in qualsiasi cosa facesse, che c’è da scommettere che sarebbe riuscito pure in questa nuova avventura. Ma Michele non ebbe tempo di mettere in pratica i suoi propositi. Riuscì solo a chiudere idealmente il cerchio a Monza, correndo l’ultima gara della sua vita - al volante di una Lamborghini Diablo, nera come l’orizzonte che lo attendeva - là dove aveva iniziato la sua carriera, in quella Formula Monza che, una ventina di anni prima, era stata incubatrice di talenti. Tre giorni più tardi, la serenità di una giornata di festa fu squarciata da una notizia tragica.
Il 25 aprile 2001, Michele moriva al Lausitzring, durante un test con la Audi R8 che di lì a poco avrebbe corso a Le Mans. A 44 anni, con i capelli ingrigiti dal tempo, non si era ancora stancato di scendere in pista. Troppo giovane per appendere il casco al chiodo, figuriamoci per morire. Vent’anni sono un’infinità per chi accumula esperienze che non può condividere con chi non c’è più. Ma sembrano un attimo quando riaffiora il dolore, sordo e crudo come il primo giorno. E chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, lo sa bene: Michele manca, ieri come oggi. Che qualcuno lo ricordi a chi esita a intitolargli una curva a Monza. Perché quella era casa sua.