Vincenzo Pincolini non è un preparatore atletico, ma IL preparatore atletico per eccellenza del calcio italiano (e non solo). Non a caso è il primo ad aver firmato un contratto professionistico nei lontani anni 80 e il primo a essere andato in pensione con questa qualifica. Ma certamente non ha solo anticipato tutti, ha proprio trascinato un movimento intero – sotto la guida di quello che inizialmente fu definito “il matto” e poi “il Profeta” di Fusignano e cioè Arrigo Sacchi – a diventare una pratica sportiva a tutto tondo, con analisi delle prestazioni, allenamenti specifici ed esercizi differenziati. Nella sua lunghissima carriera ha “preparato” i calciatori di Parma, Milan, Inter, Roma, Atletico Madrid, Dinamo Kiev, Lokomotiv Mosca e delle nazionali italiana ed ucraina, mentre attualmente si occupa di tutte le nazionali azzurre sotto l’Under 21. Insomma, dai suoi programmi di allenamento, che presero spunto dalle pratiche dell’atletica leggera, sono passate almeno tre generazioni di calciatori, fino alle giovanissime promesse di domani.
E così, chi potevamo incontrare che fosse più indicato del “Pinco” – come viene chiamato affettuosamente nell’ambiente – per capire un po’ meglio da dove veniamo e dove stiamo andando nello sport più seguito in circolazione e che dopo il lungo stop ci è mancato tanto? Ne sono emersi una marea di aneddoti di ieri e una vagonata di spunti interessanti per l’oggi. Da Roberto Baggio e Van Basten che “se fossero stati bene si parlerebbe meno di Maradona” a Cristiano Ronaldo che “se gli proponi una serie di esercizi diversi dai suoi non si lamenta, li fa entrambi”, fino a segnalarci i campioni di domani: “Tenete d’occhio il portiere Marco Carnesecchi, un fenomeno!”.
Si parte sempre dall’inizio, ma spesso l’inizio nelle storie di calcio è segnato dalle vittorie. Quali sono state le tue più grandi soddisfazioni?
Ne ho due o tre, però devo fare una premessa. La prima soddisfazione non è legata a una vittoria sul campo, quanto dall’essere riusciti, insieme a Sacchi, a cambiare un calcio che era immobile da anni. Sono arrivato al Milan a 31 anni, io che venivo dall’atletica leggera, e la più grande vittoria è stata realizzare l’utopia di Arrigo rendendola realtà. Sapevo con chi avevo a che fare, ci avevo già lavorato a Parma, però con i rossoneri era il grande salto e tutto fu possibile dalla compresenza di più persone in grado di sognare, compreso il presidente Silvio Berlusconi.
Che calcio era quello in cui siete arrivati come extraterrestri?
Intanto Arrigo è un pazzo, nel senso buono del termine. Arrivò in un calcio fermo da sempre e lui disse a tutti che il re era nudo. Inizialmente qualcuno si accorse che effettivamente qualche vestito mancava, ma alla fine quasi tutti dovettero ammettere che era veramente nudo. Si andava avanti con l’esperienza diretta, cioè un giocatore finiva la carriera e passava ad allenare nello stesso modo in cui era stato allenato lui. Di scientifico non c’era nulla. Però in quel periodo dall’Olanda cominciarono a sperimentare dei metodi diversi e Arrigo ne venne fulminato. Lui però li rese possibili e vincenti nel calcio italiano, che poi diventò un modello per tutti.
Un genio?
Certamente! Però non furono subito rose e fiori. Prima vinse un campionato inaspettato con la primavera del Cesena, poi a Rimini e a Parma lasciò grandi segni, ma dividendo l’opinione pubblica. Bisogna pensare che il calcio allora era rappresentato da Trapattoni, un conservatore. Si conoscevano quei metodi, che avevano portato a vincere molto ma senza lasciare grosse tracce di gioco, a parte catenaccio e contropiede. Io portai l’atletica leggera nel calcio perché dal punto di vista scientifico e culturale era avanti anni luce. Si lavorava su problematiche che il “pallone” non aveva mai affrontato. Ma fu uno scontro epocale, anche dal punto di vista mediatico.
A cosa ti riferisci?
I giornalisti del tempo ben presto si schierarono in due partiti. Per esempio, Gianni Brera che era considerato come Gesù in quell’ambiente, e anche per me era un idolo, ci scriveva costantemente contro. Però era una persona intelligente, di grande pulizia intellettuale. Nella famosa partita del primo maggio, eravamo dietro di un punto e andavamo a giocare a Napoli e potevamo scavalcarlo. Nell’articolo del sabato disse: “Io ho continuato a bastonare questi matti, ma se per caso questo matti domani vincono io mi tolgo il cappello, gli stendo un tappeto di rose e comincio a scrivere che sono i più forti del mondo”. Dopo la vittoria, il lunedì fece effettivamente una pagina intera con una vera e propria abiura. Se Arrigo era “il matto” poi diventato “Il Profeta”, io venivo soprannominato “il Ginnasiarca”. Prima di quello scudetto, le curve avversarie ci cantavano “maratoneti, siete solo maratoneti” perché avevo introdotto metodi di allenamento dall’atletica leggera. Ecco, quel campionato e la Champions dell’anno dopo sono le vittorie più belle, ma arrivate dopo aver dimostrato che quel cambiamento era possibile.
Siete passati dall’essere considerati dei matti a essere ascoltati da tutti.
Da lì iniziarono a adottare tattiche e metodi di lavoro diversi anche altri, fra i primi Zeman e Orrico, con fortune alterne, però gli eretici per un po’ furono ancora pochi. Ci siamo sentiti dei pionieri. Per questo ai giovani auguro il successo, ma inseguendo i propri sogni perché se ci riesci la soddisfazione viene moltiplicata per mille. Ma era un calcio diversissimo, anche solo nella fruizione da parte del pubblico.
Cioè?
È stata una rivoluzione che è andata di pari passo con quella mediatica di Berlusconi. Cioè il passaggio dall’avere uno o due canali Rai alle televisioni private o alla pay tv. Quando sono arrivato in Serie A si vedeva solo un tempo di una partita alle 19. Quindi 45 minuti di una sola, più tutti i gol. Le altre in diretta si ascoltavano per radio. Il calcio, dalle serie minori a quelle maggiori, iniziava alle 14:30 in tutti gli stadi e l’Italia intera era sintonizzata su “Tutto il calcio minuto per minuto”. Anche lì, davano tutti i risultati di A e B, mentre la C nell’intervallo. La preistoria!
Insomma, si può dire che hai inventato la figura di preparatore atletico nel calcio.
Alcuni colleghi ascrivono a me l’invenzione del ruolo. Sono stato infatti il primo a firmare un contratto professionistico e il primo ad andare in pensione con questa qualifica. Come dicevo, mi sono sentito un pioniere e il bello è che potevo segnare quella che sarebbe stata la meta successiva.
Forse quello che prese spunto da Sacchi e ottenne più vittorie fu Marcello Lippi, no?
Sì, anche se prima di Arrigo era più vicino a Trapattoni. Quando allenava a Bergamo l’Atalanta, alla mattina faceva allenamento e poi veniva a vedere i nostri perché capiva che c’era qualcosa di nuovo in atto. In tante interviste ha poi dichiarato che aveva paura di non essere all’altezza del passaggio storico. Fece molto bene al Napoli e quando arrivò alla Juve la organizzò in fotocopia a quello che avevamo fatto noi al Milan. Infatti, di lì a poco finì il nostro momento e cominciò il ciclo di successi bianconeri. Prese spunto in tutto, dal potenziare le strutture del club per ospitare i giocatori a quali hotel scegliere in trasferta, per creare un senso unitario di squadra con la società.
Hai avuto modo di lavorare anche con Lippi, però all’Inter.
Sono stato di passaggio, anzi quell’esperienza la cancello dal curriculum. Naturalmente si scherza, però c’era solo un grande presidente, Moratti, che pagava prima della scadenza del mese. Ma era disorganizzata, infatti per vincere ha dovuto migliorare sia come società che come squadra inteso come gruppo. Sono elementi che ti danno quel qualcosa in più per i risultati in successione. Come è avvenuto in seguito con Mancini e Mourinho. Quando ero a Roma con Capello ho fatto l’errore della vita. Dopo il primo anno sono scappato perché vedevo un casino incredibile nella società e non pensavo si potesse fare bene. L’anno dopo hanno vinto lo scudetto. A Milano e Torino ce l’hanno fatta in tanti, ma a Roma in pochissimi. Però ricordo che vincemmo un derby 4-0 e dopo un mese stavano ancora festeggiando. Con un grande lavoro Capello portò una mentalità vincente.
Hai allenato una schiera di campioni infinita, ma chi tieni maggiormente nel cuore?
Distinguiamo. Per me il giocatore più importante in quegli anni per tutto il calcio italiano è stato Ruud Gullit, fondamentale per lo spirito che ha portato. Negli spogliatoi prendeva per il collo gli altri quando in trasferta non si impegnavano. Era ancora il calcio dei due punti e se vincevi in casa e pareggiavi in trasferta potevi vincere il campionato. Ma lui si incazzava perché voleva vincerle tutte e con il passaggio ai 3 punti questa mentalità ci ha dato un vantaggio ancora maggiore. Questo atteggiamento ha fatto scuola. Sul piano del gioco, nel cuore ho due che se fossero stati bene fisicamente, forse oggi si parlerebbe meno di Maradona. Mi riferisco a Baggio e Van Basten.
E nonostante tutto sono nella storia.
Vedevo i loro problemi che si portavano dietro da anni e il rendimento che riuscivano comunque a dare, davvero incredibile. A Usa 94 Baggio andava allenato con il cucchiaino, perché con dosi maggiori non avrebbe mai potuto farcela. Ogni tanto mi mettevo in testa di fargli fare qualcosa in più e sbagliavo. Lui mi seguiva, perché aveva fiducia e una grandissima voglia, però doveva fermarsi perché non ce la faceva proprio. Sono sicuro che se ci trovassimo a cena con lui e arrivasse un pallone, non esiterebbe a mettersi a palleggiare. Ce l’ha dentro. Infatti, è uscito dal mondo del calcio perché a lui alla fine piaceva giocare, anche se da allenatore o dirigente avrebbe potuto guadagnare ancora moltissimo.
E Van Basten?
Per Van Basten l’abbandono della carriera è stato un evento devastante per la sua salute. È transitato attraverso esaurimenti e depressioni, perché si vedeva solo come atleta. È un giocatore per il quale ho una debolezza particolare, perché l’ho sempre visto soffrire, quando giocava perché stava male e aveva paura di non fare la successiva, oppure di smettere già da prima. Abbiamo passato intere giornate per la riabilitazione e gli allenamenti a parte. Se si guardano gli almanacchi si vedono i numeri dei gol, dei titoli e dei Palloni d’oro, ma dietro ci sono una serie infinita di sforzi, sofferenze e delusioni. Senza contare arrivati a fine carriera, perché spesso questi campioni non sono capaci di darsi un “dopo calcio”. E avere tanti soldi non toglie queste preoccupazioni.
Chi ti impressiona di più oggi?
Nicolò Zaniolo, che per me è forte quanto Francesco Totti. All’Inter ebbe un momento difficilissimo, perché a 17 anni non potendo più stare in collegio si trovò da solo con un altro ragazzo in appartamento. E quindi crisi di panico, timori di non farcela, tanto che il padre arrivava per confortarlo. E così l’Inter lo battezzò debole di carattere e lo cedette per una cifra irrisoria. Oggi se offri meno di 80 milioni alla Roma non lo prendi. Tornando al discorso sul senso di società, come una famiglia si diceva del Milan, se ci fosse stata più attenzione lo avrebbero aiutato e atteso. Ma spesso i proprietari delle società non sono più presidenti, ma fondi di investimento che hanno come obiettivo arrivare prima possibile al successo o guadagnare e quindi certi valori li perdi.
Immagino che ti piacerebbe allenare uno come Cristiano Ronaldo.
Come no, anche perché è semplicissimo. Sono in contatto con i preparatori della Juve e mi dicono che non si ferma mai. Lui ha già un suo programma di allenamento, ma se gli proponi qualcosa di diverso non dice di no, ma ti risponde: “Ok, faccio prima il mio e poi il tuo”. Si allena sempre e in più ha portato una attenzione verso aspetti prima trascurati. Per esempio, il valore delle ore di sonno in relazione ai tempi di recupero. Oppure sull’alimentazione, con parametri creati da specialisti, che porteranno vantaggi a tutto il gruppo. Anche se in modo meno integralista, un grande campione porta dei vantaggi per tutti quelli che gli ruotano intorno.
Torniamo agli allenatori. Chi è l’erede di Sacchi, cioè il rivoluzionario di questa epoca? Ti faccio due nomi: Guardiola e Sarri.
France Football qualche tempo fa ha analizzato le varie epoche storiche e mi trova d’accordo. Per primo ha messo l’olandese Michels, poi Sacchi e dopo una serie di rielaborazioni Guardiola. Per esempio, Mourinho è un grande gestore di squadre e sa ottenere risultati, però non è un rivoluzionario. Come Capello, uno dei più grandi a gestire certi momenti difficili. Qualcuno cita Klopp, ma lo considero più un incredibile comunicatore positivo, però di nuovo nel calcio vedo poco. Se vogliamo un rivoluzionario, anche se ho difficoltà a vederlo lontano da Bergamo, è Gasperini. Ha preso ciò che di buono c’era del calcio di una volta, con alcune intuizioni più attuali. E poi fa un mazzo tanto ai giocatori. In questo momento è lui quello controcorrente.
E Sarri, reduce dalla sconfitta in finale di Coppa Italia?
Per ora alla Juventus ha deluso, perché non si capisce che calcio stia giocando. Si è appoggiato alla qualità dei giocatori, più che alle sue idee. Però ci vuole un po’ di tempo. Evidentemente sta cercando di realizzare quello che ha in testa e per ora non ci riesce, il problema è che deve vincere sempre e per farlo ha per ora scelto la via più breve.
Veniamo a una nota dolente. Il tuo Milan, come lo vedi?
Il Milan in campo è l’esatta espressione del Milan fuori dal campo. Mi sembra una società non abituata ad avere squadre di calcio che non si è ancora adeguata alla realtà italiana e rischia di perdere molto tempo per imparare. Se poi arriva Rangnick e cambia ancora tutto, si perde persino quel poco di buono che è stato fatto. Restando all’oggi, se vuoi costruire una squadra partendo dai giovani, mai avresti dovuto affidarti a uno come Ibrahimovic a 38 anni. Andava bene se stavi lottando per lo scudetto e ti mancava quel qualcosa in più, ma per un progetto di crescita di 2-3 anni come fai a basare tutto su uno che non ci sarà in futuro? Il Milan dovrebbe tornare a valorizzare giovani, come fece con Kakà, che diventano grandi in Italia, e contestualmente puntare sui ragazzi che crescono nel suo settore giovanile, come potevano essere Cutrone, Locatelli e Petagna.
E invece sono stati i primi a essere ceduti.
Cutrone non sarà un fenomeno, ma è un ottimo giocatore e per i colori della squadra dove è cresciuto avrebbe dato l’anima. Lo considero un po’ com’era Marco Simone nel Milan del passato, uno che anche dalla panchina ti può rompere le partite in qualsiasi momento. È un giocatore che non c’è al Milan. Come Locatelli che a Sassuolo ha fatto salti incredibili. Gli manca ancora un passo e diventa il centrocampista della nazionale per i prossimi dieci anni. E persino Petagna, che a Napoli farà bene, è stato sottovalutato. Un po’ come Bobo Vieri, poco considerato per le sue qualità tecniche, eppure le possiede e al Milan ci sarebbe stato benissimo.
Visto che in questi ultimi anni lavori con le nazionali giovanili, chi sono i giocatori da tenere d’occhio per il prossimo futuro?
Intanto in nazionale maggiore arriveranno grandi talenti come Bastoni, Zaniolo e Locatelli. Oppure Chiesa, che è fortissimo ma secondo me deve ancora decidere se essere una punta, però segnando più gol, o un centrocampista. Ma è intelligentissimo, parla tre-quattro lingue e migliorerà tanto. Sui portieri mi sento di fare un nome solo: Marco Carnesecchi dell’Atalanta che gioca a Trapani. Un fenomeno vero, che il prossimo anno sarà pronto per il grande salto.
È ripartito il campionato, da preparatore atletico cosa ti preoccupa di più?
Quando è iniziato il lockdown non pensavo fosse così lungo. Infatti, quando mi chiedevano un parere dicevo: per una sosta di un mese, basta riprendere con due settimane di lavoro individuale e altre due di squadra e i giocatori saranno pronti. Invece dopo uno stop così lungo bisogna valutare bene come hanno lavorato a casa i calciatori, in particolare sulla prevenzione agli infortuni e sul peso. Giocare a calcio è creatività, ma per metterla in pratica servono energie. Quindi, come si diceva una volta quando fai fatica: “Il pallone corre senza sudare”. Per cui le squadre tecniche e agili, giocando ogni tre giorni saranno favorite. Non fa ben sperare il report della prima giornata di Bundesliga, che ha fatto registrare 13 infortuni. Questo è il rischio maggiore.