E così a un certo punto grido: “Kamala Harris doveva farsi sparare a una tetta!”, mentre i gatti mi guardano basito, perché ci sono molte cose che non so, per esempio non so perché sono qui con tutti i device accesi passando da Enrico Mentana a Bianca Berlinguer a Bruno Vespa (poco Bruno Vespa se no mi addormento) ai relitti della Skeleton Coast in Namibia, sulle tracce dei pirati somali su Google Maps, ripercorrendo la storia dei Templari, e seguendo il tragitto del dirigibile Norge sul Polo Nord, ma una cosa la so (pausa, due punti): se a uno gli sparano a un orecchio avendo mirato all’osso occipitale dietro il padiglione auricolare (e tutti i cecchini professionisti sanno che lì è dove devi mirare se vuoi fare più danno possibile) e quello si volta per caso perché parla come in un selfie, con la bocca a culo di gallina, e muove anche la testa come una gallina, e così gli fanno il piercing che piace tanto alla generazione Z, e poi con la faccia insanguinata, mentre i servizi segreti cercano di portarti via, dice, tipo, statevi fermi, non rompete i coglioni, qui devo ancora finire e alza il pugno e dice al pubblico “Fight, Fight, Fight!” con le maiuscole dopo le virgole, bé potete stare fottutamente certi che quello sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, perché possono essere woke e cancel culture quanto volete, ma gli americani hanno John Wayne nel sangue come noi abbiamo Totò e possono anche essere divi hollywoodiani che tirano i pipponi contro il puzzone ma sono e resteranno per sempre un popolo che sta lì dopo lo sterminio degli indiani (non siamo mica gli americani), mica cazzi. Punto. E non puoi mettergli contro una che ride; perché a quello hanno mirato contro l’osso occipitale (che è il posto dove etc. etc.) e tu ridi? Dice: ma non è che rideva solo. Ah no? Dimmi una cosa che ha detto Kamala Harris perché io non la so. E in ogni caso non puoi mettercela lì dopo che per mesi hai voluto fare passare Joe Biden per un robot della Tesla ricoperto con la maschera che usa Tom Cruise nei Mission Impossible, perché è chiaro – no? - che Elon Musk te lo sapotava e quello si impallava e se ne andava in giro per il parco come Max Headroom cantando R.O.B.O.T di David Zed. Almeno potevano comprarsi un robot della Boston Dynamics, che ha collaborato con la Darpa, anche se nel 2020 se l’è comprata la Hyundai, sudcoreana, per 917 milioni di dollari. E così Donald Trump è il qualcosesimo presidente americano e io sono schizzatissimo per tutto il caffè ho preso. Cazzo.
Dicevo. Che vincesse Donald Trump lo sapevo da ieri pomeriggio alle 16, perché al bar della stazione di servizio dicevano tutti che avrebbe vinto Trump, e dato che qui nel sudest siculo sono come gli americani che hanno sparato agli indiani (fuoco agli indiani) lo sapevo che ci avrebbero azzeccato. Se J.D. Vance fosse stato ita(g)liano lo sapete dove sarebbe nato? A Rosolini, tra trattori e pick up e camicie di flanella e tute macchiate di grasso e scarpe da lavoro col puntale rinforzato. E poi lo sapevo perché è vero che gli americani proibiscono gli exit poll e tutte le stronzate di questo genere, ma i siti inglesi di scommesse avevano tirato fuori le quote e quelli mica stanno lì a fare i dibattiti sul sessismo. In ogni caso ho cercato di farmi un sonnellino e quando la sveglia ha suonato a mezzanotte, come al solito, ho urlato. Poi mi sono seduto sul letto, mi sono guardato l’uccello e gli ho fatto: andiamo a lavorare. Lui, giustamente, mi ha risposto: “’Sta minchia”, ma io mi sono fatto il caffè ugualmente e le palle hanno detto: “Che palle!”. Io sono riuscito soltanto a farfugliare: “Ma come siamo spiritosi stanotte, questa battute dovreste farle a Kamala Harris tanto quella ride in ogni caso”, mi sono bruciato la lingua col caffè e ho urlato. Se abiti in campagna da solo, a 11 chilometri dal segno di civiltà più vicino, parli col tuo uccello e urli, non bisogna stupirsi più di tanto. Quindi ho acceso tutti i device traballanti e me li sono piazzati davanti che neanche nella situation room e dopo due minuti ho subito capito che non si può fare un reportage gonzo tipo #maratonacappellani sulle elezioni americane viste dall’Italia perché non potrò mai essere più gonzo del telegiornalismo italiano (era da un po’ che non lo guardavo, tipo cinque o sei anni) e la diretta live de Il Foglio (che uno dice “loro sì che sparano agli indiani”) con Giuliano Ferrara, aveva 27 spettatori (ma poi ha raggiunto anche picchi di circa 80) e se facevo la live io inquadrandomi i piedi (ce li ho bellissimi) ne facevo un migliaio facile facile. Ma comunque.
Sono uscito fuori per prendere una boccata d’aria, nudo com’ero. Ancora qui la notte è quasi calda. Buio. Ho guardato l’immensa antenna parabolica illuminata di arancione che dista circa un chilometro da casa mia e che dovrebbe essere una installazione messa in rete con altre migliaia di parabolone in giro per il pianeta per captare i segnali radio provenienti dallo spazio e ho pensato “secondo me ci guidano anche i droni, mentre ci sono”: Ufo e Droni. Al che mi sono detto: “Minchia, Musk!” e sono corso dentro a vedere che stava facendo quel pazzerellone di Elon. Anche lui aveva tutti i device accesi e stava icsando (si dice così o si dice ancora twittando?) come un forsennato e secondo me J.D. Vance dura poco anche se non so se sia possibile licenziare il vicepresidente ma Musk è lì, pronto, altro che hillbilly.
Mentana, Vespa e compagnia maratoneggiando mi hanno fatto capire subito che al bar della stazione di servizio avevano ragione. Le maratone elettorali funzionano così: se il vincitore è incerto i conduttori si lanciano in previsioni per poi dire “io sono stato il primo che l’ho detto”, tanto siamo in Italia e se c’azzecchi tutti dico “ci ha azzeccato” se inveci dici una minchiata dopo cinque minuti non se la ricorda più nessuno, altrimenti non si spiegherebbe, dico l’Italia, non si spiegherebbe. Invece, se si sa già chi è il vincitore (e si sapeva) sono tutti lì a dire: “La notte è lunga”, “Il risultato è incertissimo”, “C’è il testa a testa”, “L’America è divisa”, perché devono tenere lo spettatore sveglio e interessato se no che minchia l’hanno fatta a fare la maratona? E difatti tutte le banalità che si potevano dire le hanno dette. Facevano le analisi, facevano, e nessuno che parlava dell’orecchio di Donald Trump e della tetta immacolata di Kamala Harris e di Biden-Tesla sabotato da Elon. Sarebbe stata una lunga nottata.
Voglio dire, tutte le mie nottate sono lunghe. Io la notte non dormo. Urlo, parlo col mio uccello e leggo romanzi di avventura. Così ho lasciato i device accesi e ho cominciato “L’eredità di Dio” di James Rollins (ieri notte, se vi interessa, ho finito “L’Ordine del Sole Nero”, sempre di Rollins): leggo un romanzo a notte mentre guardo su Google Maps i luoghi dove si svolgono i romanzi. Per adesso ho gli incubi e riesco a dormire solo di giorno. Cazzi miei comunque. L’”Eredità di Dio” parte dai Templari e poi passa al rapimento della figlia del presidente americano. Ho cercato di immaginare Barron Trump al posto della protagonista del romanzo e mi sono detto: “Naaa”. Allora ho provato immaginare Ivanka rapita, ma mi facevano pena i rapitori e di solito, nei romanzi di avventura, i rapitori sono quelli cattivi, ma immaginarmeli a tenersi Ivanka mi ispiravano tenerezza e quindi “naaa”, ho ripetuto. E mi sono messo a leggere. Su Italia 1 facevano “Segreti nel ghiaccio” (non guardo la televisione, ma guardo in streaming i finti documentari sugli alieni e sui misteri e Italia 1, nell’app, è proprio sopra La7, quindi via Mentana, vai con il dirigibile Norge e il mistero del suo capannone. Nell’altro device c’era un alieno: era tutto bianco bianco, gli occhi a fessura e senza bocca, e indossava una parrucca. Boh! Mi sono rimesso a leggere. Dopo una trentina di pagine ho pensato: “Parrucca?”. Così ho girato gli occhi e ho visto che non era un alieno, era Bianca Berlinguer con le luci così forti che sembrava che la stessero interrogando i rapitori del romanzo. Non è "È sempre cartabianca" ma è totalmente Facciabianca. Possibile che nessuno glielo dica? Non ha il naso e la bocca: solo due buchini neri al posto degli occhi e i capelli che sembrano una parrucca. Boh. Ho alzato il volume per vedere che dicevano: non dicevano nulla. Ho letto ancora un po’ (l’azione si è spostata nelle coste della Somalia, dove ci sono i pirati somali, ho guardato su Google Maps la costa somala e i porti somali) e poi ho detto: vabbé lavoriamo. Così ho messo Bruno Vespa. Da Vespa c’erano i politici italiani. Più politici che giornalisti. Così ho prestato attenzione: parlavano di rapimenti in dirigibile, poi entrava Massimo D’Alema raccontando la sua nuova vita di pirata somalo con la barca a vela e a Silvio Berlusconi regalavano alcuni gatti. Berlusconi? Ho aperto gli occhi urlando (non per Berlusconi, io mi sveglio sempre urlando, da un po di tempo la realtà mi fa quest’effetto) e ho visto che c’erano gatti ovunque: sulla scrivania, sui braccioli, sul letto, e miagolavano in coro. Credo che non sopportino Bruno Vespa, o che faccia loro venire fame, non so. Fattosta che mentre a me faceva dormire mi svegliavano i gatti e quando i miei gatti si svegliano vogliono mangiare. Così mi sono fatto un altro caffè, ho urlato, ho dato loro da mangiare e con la manina ho fatto “ciao ciao” a Bruno Vespa e sono tornato a Mentana. Chi c’era da Mentana? Vabbe’, troppo facile: Federico Rampini con le bretelle di Federico Rampini e voi mi dovete spiegare perché tutti i giornalisti italiani devono essere così provinciali che appena vanno in America si mettono le bretelle, anzi ve lo spiego io: perché se le metteva Larry King e, come detto, gli italiani sono provinciali. Infatti i giornalisti americani sfottono molto i giornalisti italiani e li riconoscono subito dalle bretelle. I giornalisti americani non si sognerebbero mai di mettersi le bretelle altrimenti sembrerebbero provinciali che voglio somigliare a Larry King, ma questo, agli italiani, non glielo dicono altrimenti finisce loro il divertimento di percularli. Così è la vita.
Nel frattempo la mappa diventava tutta rossa e Mentana e l’Aliena non sapevano come allungare il brodo al posto di dire, con la voce di Maurizio Milani: “Bòn, ha vinto Trump, vi salutiamo perché anche voi avrete tori da lavare”. Prendo il telefonino e per farmi passare il sonno vado nella pagina di Elon Musk e vedo che c’era lo scandalo di Google: “Uh che bello, lo scandalo di Google”. Insomma Musk sosteneva che se si digitava: “Dove devo andare per votare Trump?” non succedeva niente, e invece se si scriveva “dove devo andare per votare Harris” Google ti dava addirittura la mappa. I gatti hanno fatto tutti un miagolìo di indignazione. Dopo un po’ è arrivata la risposta di Google: “Spunta la piantina perché Harris è una città, invece Trump no”. Mi sono immaginato Elon che pensava: “Perché non c’è una cittadina che si chiama Musk?”. C’è: in Australia. Ho passeggiato virtualmente per le vie di Musk, Victoria, Australia. C’è un cottage. Interessante.
Quando infine Mentana ha detto: “Potrebbero esserci possibilità che vinca Trump” ho detto: “Bòn, vado a lavare i gatti”, tanto non se ne usciva. Così ho messo via il cappello da vikingo e mi sono messo a letto col romanzo di James Rollins. Sono rimasto un po’ triste, devo dire. Speravo nella vittoria di Kamala Harris. Lo speravo davvero: non perché mi piaccia Kamala (non piace a nessuno, lo hanno detto tutti) e neanche perché non mi piace Trump (che invece piace a molti), ma soltanto perché speravo, sentendomi molto in colpa, che Trump e Musk andassero fuori di testa e assaltassero di nuovo Capitol Hill, o la Casa Bianca addirittura. Ma lo speravo per il giornalismo. Per la narrazione. Voglio dire: quello sì che era qualcosa di cui scrivere; una guerra civile americana. Il 71 per cento dei cittadini americani ci credeva. Ho finito il romanzo e mi sono addormentato immaginandomi Kamala Harris, col copricapo vikingo, che assaltava Capitol Hill e defecava sulla scrivania di Nancy Pelosi. (Prego la regia di mandare la foto). Non ho ancora perso le speranze in una guerra civile fatta scoppiare dai democrat-woke.