L’etichetta più scontata che si appiccica come marchio d’infamia a Giorgia Meloni è la solita, sempre quella: “fascista”. Nelle file degli ex Msi ed ex An di certo l’antifascismo non è un valore assoluto, ma lo spauracchio del fascismo eterno è ormai un’arma scarica, dato che, stando ai sondaggi, Fratelli d’Italia viene dato stabilmente come primo partito. Difficile considerare fascisti qualche milione di persone. Subito in seconda posizione, secondo il luogo comune per cui vivremmo sotto la sferza del millenario patriarcato, è che la Meloni sarebbe a capo di una forza erede del bieco maschilismo tipico della destra. La tesi viene rispolverata da Paolo Berizzi, il naso da tartufi neofasci, su Repubblica del 7 agosto (“Meloni, la leader di un partito a impronta maschilista”).
Le argomentazioni di Berizzi sono sostanzialmente due. La prima: le donne in prima fila in FdI - ovviamente “nere”, legate al retaggio del Ventennio eccetera eccetera - sarebbero in realtà di seconda fila. Non conterebbero niente, o quasi. Si citano Daniela Santanchè, presentata come anti-immigrati (che scoop), Deborah Dell’Acqua (milanese, proveniente da “Fare fronte” di Roberto Jonghi Lavarini, in realtà criticissimo con il partito meloniano, troppo moderato ai suoi occhi), la deputata Paola Frassinetti (ex Fronte della Gioventù: embè?), l’assessora regionale veneta Elena Donazzan (nota fuori dal Veneto per canticchiare “Faccetta nera” in radio), la giovane parlamentare Augusta Montaruli (ex Azione Giovani: e quindi?), la consigliera regionale in Lazio Chiara Colosimo (ex cubista, sottolineatura scopertamente classista). Ora, detto che nella visibilità mediatica (Santanchè) o nei loro territori (Donazzan su tutte) un qualche peso possono avercelo e ce l’hanno, è un dato di fatto che, a parte Fratelli d’Italia, degli altri partiti, di centro, di destra e anche di sinistra, eccettuato per quella parte dei Radicali che si riconosce in Emma Bonino, attualmente non ce n’è nemmeno uno di importante che abbia come segretaria - quindi non in prima, in primissima fila - una donna. Nel Partito Democratico c’è una vicesegretaria donna (Irene Tinagli, già montiana, e occorre risalire a Rosi Bindi per riesumare una figura femminile di nota), nel microcosmo di sinistra una Laura Boldrini è finita quasi nel dimenticatoio, dalle parti di Matteo Renzi si ricorda una Maria Elena Boschi seconda o terza nel famoso “giglio magico”, finendo con la Lega dove generale e colonnelli sono tutti maschi e tralasciando per carità di patria Forza Italia, da sempre proiezione dell’ego machista di Silvio Berlusconi (ma da cui, paradossalmente, sono uscite una Mariastella Gelmini e una Mara Carfagna che, al netto dei recenti posizionamenti, una loro personalità l’hanno fatta valere).
Il secondo argomento è un vero boomerang, e Berizzi nel suo articolo lo lascia esporre da Alessandra Kersevan, storica ed editrice. Dapprima, l’inevitabile constatazione: anche fra quei maschilisti destrorsi di Fratelli d’Italia le barriere culturali sono cadute, visto che la Meloni è la “capa”. Poi, l’autogoal: “l’essere donna, di per sé, non è garanzia di buon governo”. Basti tornare con la memoria, per fare due esempi, a Margareth Thatcher, la Lady di ferro, o a Condoleeza Rice, la guerrafondaia neocon (fra l’altro nera, quindi teoricamente anti-razzista, e ci sarebbe da aggiungere Madeleine Albright, democratica bombardatrice seriale, nonchè la stessa Bonino, tifosa delle guerre d’esportazione democratica). Oh bella, amici liberal: ma allora le quote rosa da imporre un po’ ovunque, battaglia di civiltà imprescindibile per chi abbia a cuore la condizione della donna, non saranno mica una forzatura che rischia di anteporre il genere sessuale alla sostanza delle idee e dei fatti? Sì, insomma, sarà mica una cazzata? Perché se è indubbio che il potere è prevalentemente in pugno a una congrega cripto-omosessuale di maschietti testosteronici, è vero anche che non è per niente detto che le donne rivelino, giunte a un certo livello, una sensibilità tanto differente da quella maschile. Non lo diciamo noi. Lo dice la Kersevan, e attraverso di lei Berizzi. Ma tu guarda dove si infila a volte il maschilismo: persino fra gli anti-maschilisti da campagna elettorale.