Il vero film “atomico” di questa calda estate 2023? Non è Oppenheimer ma… Barbie! Si, perché è bastato un fotogramma del nuovo film che porta in carne e ossa le avventure della più celebre bambola al mondo, realizzato da Greta Gerwig e prodotto da Warner Bros, per scatenare un caso geopolitico. Avente al centro il braccio di ferro tra gli Stati Uniti e la Cina, ma non solo. Cosa può aver portato Barbie a far discutere tanto da spingere il Vietnam, confinante con Pechino, a vietarne la distribuzione, le Filippine a consentirne la proiezione solo dopo un attivo dibattito tra funzionari e molti deputati del Partito Repubblicano Usa arrivare a spingere per interrogazioni parlamentari sulle influenze cinesi negli States? La presunta proposizione di una visione del mondo “alla cinese” in una scena del film. In una scena, alle spalle della protagonista, apparirebbe infatti una mappa stilizzata che, a destra dell’Asia, mostrerebbe la cosiddetta “Linea a nove tratti”, cuore delle rivendicazioni cinesi nel Mar cinese meridionale.
Parliamo di un confine marittimo rivendicato da Pechino che la Cina, sfruttando la costruzione di isole artificiali e la rivendicazione di isolotti contesi con Filippine, Vietnam, Brunei, Indonesia e l’ovvia rivendicazione della sovranità su Taiwan, traccia a più di 1.500 km dalla propria costa per rivendicare la stragrande maggioranza del Mar Cinese Meridionale come suo territorio esclusivo. E poter bloccare di fatto ogni movimento di Paesi avversari nelle sue acque. A partire dagli Usa.
Filippine e Vietnam, ricorda Time, in passato hanno già bloccato dei prodotti per il richiamo alle rivendicazioni cinesi: "Nel 2021, i funzionari delle Filippine hanno ordinato a Netflix di rimuovere episodi selezionati del dramma di spionaggio australiano 'Pine Gap' a causa di scene contenenti la linea a nove tratti, mentre il Vietnam ha chiesto che l'intera serie fosse rimossa dallo streamer".
Il clima odierno è molto teso e tra il teenage dream di molte ragazze ed ex bambine che si aspettavano da tempo un film a tema Barbie e una complessa questione geostrategica legata a rivalità navali e rivendicazioni di sovranità il passo è stato breve. Ed è ancora più ironico il fatto che, evidentemente, solo con grande fantasia si potrebbe pensare che il disegno alle spalle di Barbie rappresenti una qualsivoglia indicazione politica. Ma la Guerra Fredda 2.0 ha le sue ritualità. Per il senatore repubblicano del Texas Ted Cruz, il film è un tentativo di “placare il Partito Comunista Cinese”. Per il collega deputato Mike Gallagher, ex ufficiale e rappresentante del Winsconsin, il film “illustra la pressione che Hollywood sta subendo per compiacere i censori” di Pechino.
Durissimo anche The Federalist, che ha ricordato come “Barbie abbia ricevuto una lezione di geopolitica”: “Attualmente, ad eccezione della Cina, nessun paese riconosce la legittimità della linea a nove tratti”, ha scritto la testata, e “Hollywood non può pretendere di ignorare tutte le tensioni geopolitiche nel Mar Cinese Meridionale. Né può fingere di essere ingenuo sul suo ruolo nella diffusione della propaganda della Cina comunista”.
Film e grande politica sono stati molto legati negli scorsi decenni. E se parlare di una “censura di Pechino” orchestrata dal Partito comunista di Xi Jinping è forse eccessiva, sicuramente in passato Hollywood e i suoi registi non hanno mancato critiche e attacchi quando dal mercato cinese, il più grande del mondo, i mugugni sono arrivati nella loro massima forza. Un anno fa fece discutere la rimozione della bandiera di Taiwan sul giubbotto di pelle di Maverick, l'ufficiale pilota della United States Navy impersonato da Tom Cruise in ''Top Gun''. Nel 2020 fu l’attore e wrestler John Cena a dover fare pubblica ammenda con un video sul social cinese Weibo dopo che in una conferenza stampa di presentazione del film Fast & Furious 9 – The Fast Saga, che tra le altre cose era stato prodotto anche dalla China Film Group Corporation, definì Taiwan un “Paese indipendente”. Fumo negli occhi per Pechino, che rivendica la sovranità sull’isola.
Da World War Z, che nel 2013 fu emendato dell’idea di una pandemia partita dalla Cina destinata a travolgere il mondo, al cambio di origini dell’Antico, protagonista del film Marvel Doctor Strange da tibetane a celtiche, più volte Hollywood ha assecondato del resto Pechino. E l’assenza di film su questioni-bandiera per la Cina come la repressione in Xinjiang, il Tibet e Hong Kong mostra quanto il timore di perdere il mercato cinese abbia condizionato Hollywood. Già in passato, del resto, soggetto a una tagliola non indifferente sul fronte interno: celebri le offerte delle forze armate Usa di prestare ai produttori i mezzi necessari a girare i film sulla guerra in Vietnam in cambio di un adattamento del copione alle logiche del Pentagono. A cui Francis Ford Coppola non si volle adeguare, trovandosi costretto a girare Apocalypse Now nelle Filippine.
Barbie presenta un caso che è forse solo il più grande di una lunga serie e ha la sfortuna di uscire in una fase di esasperata tensione tra le due più grandi potenze del pianeta, in cui si stanno recuperando concetti da Guerra Fredda come la lotta per l’egemonia culturale e il controllo della narrazione ideologica. Una sfida in cui tutto diventa politica e la battaglia per controllare l’immaginario delle popolazioni, soprattutto dei più giovani, è ritenuta cruciale nell’agenda politica. Anche con risultati, molto spesso, grotteschi. L’Unclos, la conferenza globale sui diritti del mare, si è già espressa nel 2016 respingendo al mittente la rivendicazione di Pechino sulla linea. Esasperare la sua presenza in un film, vera o finta che sia, come possibile fonte di creazione di problematiche geopolitiche globali dà l’idea di uno spirito del tempo assai problematico e di una rivalità Cina-Usa che rischia di plasmare un mondo pericoloso e competitivo. Non esattamente ciò che muove il pubblico di riferimento di un film tanto atteso quanto, a sua insaputa, discusso.