A me Carlo Verdone che se la dà a gambe, alla stazione di Milano, con quella sua corsetta goffa con le gambe a X accentuata dalle protesi alle anche, inseguito da uno straniero ubriaco che lo insegue con un collo di bottiglia in mano, fa ridere molto (ho anche io una protesi all’anca, quindi posso dirlo senza essere politicamente scorretto). Certo un po’ ci casca anche Verdone, “biascicando in una lingua sconosciuta”, come se nelle stazioni non ci fossero homeless italiani pazzi e violenti, ma tendiamo a non farci caso, per non prenderci la responsabilità, suppongo. Verdone dice che si è spaventato “più che a Termini, a Roma, che è tutto dire”. C’è un po’ di romanocentrismo nel dire che Milano è peggio di Roma? Non saprei. In ogni caso fa ridere molto, anche se era molto serio nel raccontarlo nella trasmissione “A cena da Maria Latella”, che è un titolo che fa ridere molto pure esso.
La verità è che le città, per quanto ripulite, per quanto aspiranti al ruolo di metropoli, sono sempre state luogo di malaffare, di schiavi (anche il cosiddetto terzo o quarto settore, che dir si voglia, è fatto di schiavi: architetti, avvocati, medici, presidenti del cda del Piccolo). Mi viene in mente Manlio Sgalambro che ne “L’indifferenza in materia di società” scriveva: “Non solo vogliono la società, ma per di più la vogliono giusta”. Era un po’ questo il tema a cena con Latella: la deriva delle città. Come se davvero le città fossero un tempo state un paradiso.
La verità è che le città sono sempre state il bordello delle campagne, e anzi le stazioni, l’ingresso cioè dire a questo parco di divertimenti profondamente depravato, erano l’unica zona sicura. A Milano c’era quell’albergo diurno che profumava di igiene e dopobarba, in cui, magari stanchi e provati da un viaggio di un paio d’ore, il gentiluomo (che mai avrebbe abitato in città, le case in città si chiamano “appartamenti” luoghi in cui appartarsi a fare i propri bisogni: sesso, funzioni corporali, bidet, sonnellino – prima di tornare nelle “case”, mai in città, mai con gli schiavi) si dava una rinfrescata prima di entrare nella Sodoma: commercianti infidi e divertenti nella loro smania di guadagno, custurieri, ossia sarti, che già si davano arie da stilisti (ma sarti erano e sarti restano ancora nonostante il capitalismo voglia farne artisti), teatranti (gentaglia che dà voce alle parole di grandi scrittori e che non venivano seppelliti in luoghi consacrati), ballerine di avanspettacolo con il loro tariffario, diciamo così, after house, e infine il mondo dei traffichini: avvocati, pittori, architetti, aggiustaossa, taverne, prostitute, droghe e sciocchezzuole varie, in cui dilettarsi diciamo un fine settimane al mese, prima di tornare in collina, o nelle campagne, a vivere la vita vera.
Il documentario di Roberto D’Agostino e Marco Giusti la racconta giusta, su Roma: una città di schiavi del Vaticano, compresa quella nobiltà nera e papalina che decise di abitare nella capitale perdendosi definitivamente in affari di poco conto.
Carlo Verdone, inconsapevolmente, la dice giusta sulle stazioni come simbolo del degrado delle città. Ma in senso inverso: è il degrado delle città che si è spinto fino alle stazioni: non si possono redimere le stazioni senza redimere le città, che sono irredimibili perché nate proprio con la funzione liberatoria del degrado. Che Carlo Verdone, cantore di Roma, venga inseguito da uno straniero biascicante che impugna un collo di bottiglia fa ridere molto perché è commedia pura: ossia tragedia più tempo, o tragedia più distanza. Commedia che non colgono, ovviamente, coloro che vivono in città: persone abbrutite e incivili, coi denti marci dietro gli impianti, che guidano trattori (li chiamano Suv) e che commerciano innanzitutto la propria anima.