La notizia della morte di tre agenti durante un’operazione per sgomberare una casa fatiscente nel veronese è tutta sbagliata. Ora ci saranno funerali di Stato e il lutto nazionale, ma chiaramente il luogotenente carica speciale Marco Piffari, il carabiniere scelto Davide Bernardello e il brigadiere capo qualifica speciale Valerio Daprà non dovevano morire. Dino, Franco e Maria Luisa Ramponi, tre pastori sessantenni, li hanno ammazzati facendo esplodere l’intero casolare di Castel D’Azzano, dopo aver aperto delle bombole del gas e aver lanciato una molotov nell’edificio. Ma bisogna evitare di provare quella che Giorgio Bocca, parlando della sua attività di cronista, chiamava i “finti sentimenti”, cioè quel finto mostrarsi a lutto per qualcosa che non è capitato a noi, a qualcuno vicino a noi, e verso cui si prova semai quell’empatia dettata dalla convivenza civile, dall’elementare far parte di una social catena, ma niente di più. Perché poi si rischia di sfiorare la retorica o, per falso pudore, di non farsi domande da uomo comune, lecite, banali, ma che forse meriterebbero una risposta.
Nel 2013 uno dei fratelli Ramponi aveva ucciso in un incidente stradale un uomo. Dovette pagare processi e risarcimenti e la famiglia Ramponi iniziò a indebitarsi. Vendettero alcuni dei terreni che coltivavano, e arrivarono a chiedere prestiti che non riuscivano a ripagare. Fino al momento in cui anche casa loro, il casale di Castel D’Azzano, un appartamento senza luce elettrica e in rovina, venne messa all’asta. Per anni i tre fratelli hanno sostenuto di essere stati ingannati, che nei documenti del prestito insolvibile ci fossero sì le loro firme, ma contraffatte. Per cui si rifiutarono di lasciare casa loro, dov’erano nati e cresciuti, e dove nessuno si avvicinava. Nel 2024 c’era stato un tentativo di liberare la casa, ma i tre fratelli erano saliti sul tetto e avevano minacciato di lanciare delle molotov contro le forze dell’ordine. Da quel momento la casa è stata monitorata costantemente, anche con droni, che ripresero le immagini del tetto puntellato di molotov. I vicini dicono che i Ramponi son sempre stati gente strana, “venuta giù dai monti” insieme ai loro genitori. Hanno piantato un enorme faro nei loro campi per poter lavorare e mungere le vacche di notte, mentre il giorno nessuno li vedeva. Le foto riprese dai giornali e online ci dicono che i tre fratelli, la più piccola di sessant’anni, il più grande sessantacinque, erano e sono persone semplici, poco inclini al dialogo e alla mediazione. Quando i carabinieri andarono la prima volta avevano già minacciato di fare esplodere tutto aprendo una bombola del gas.

È quello che, un anno dopo, hanno deciso di fare. Per questo le forze dell’ordine avevano scelto di pianificare tutto anche con un vertice in prefettura. C’erano agenti dentro e fuori la casa. Trentacinque persone addestrate, molte di loro, tranne i vigili del fuoco, armate. Poi precipita tutto. Tre agenti sono in casa, altri sul tetto, Maria Luisa Ramponi, la più piccola, accende una molotov e la lancia, consapevole di ciò che sarebbe accaduto: l’esplosione totale. Cedono tetto e pareti e tre persone, due cinquantenni e un trentenne, muoiono schiacciate mentre gli altri agenti gridavano “Via, via!” Arrivato a Verona, come Crosetto, il comandante generale Salvatore Luongo ha commentato così: “Non abbiamo così tante perdite dalla strage del Pilastro e da Nassiriya”. Si paragona quello che è successo a quando nel 1991 la Uno Banca, un’organizzazione criminale, ammazzò tre carabinieri a Bologna e da quando nel 2003 diciannove italiani vennero uccisi in un attacco terroristico in Iraq.

Allora ci facciamo domande da uomini comuni: com’è possibile che a compiere la peggior strage per le forze dell’ordine italiane degli ultimi vent’anni siano stati tre montanari che mungevano vacche di notte, non parlavano con nessuno, avevano oltre sessant’anni, erano stati monitorati per almeno un anno e avevano già fatto capire come avrebbero reagito a un blitz dei carabinieri? E com’è possibile che un’operazione pianificata, p i a n i f i c a t a, tempo prima, tenendo conto di tutto questo, abbia portato alla morte di tre agenti? Sono domande da uomo comune, che dovremmo iniziare a farci. Perché l’imponderabile c’è sempre, come il giorno in cui le cose non vanno come devono, e quello della tragedia di Castel D’Azzano è uno di questi. Ma possibile che delle unità di persone addestrate pianifichi un esproprio di tre contadini con evidenti problemi di socialità ed emarginazione e finiscano con tre agenti morti e il casolare distrutto. Cosa avevano pianificato esattamente? Cosa è andato storto? I tre fratelli hanno fatto ciò che avevano minacciato di fare, hanno lanciato una molotov, come quelle riprese dai droni sul tetto, dopo aver riempito l’edificio di gas, come avevano fatto un anno prima.
Ricorda un’altra notizia, di circa venticinque anni fa, quando un allevatore marchigiano dichiarò guerra a chiunque avesse messo piede sul “suo” monte, Monte San Vicino. In piena modalità rambo, di fronte a un dispiegamento di forze di polizia da cartone animato, l’allevatore schiacciò delle macchine della forestale con il suo trattore, in un’altra occasione tese delle corde tra gli alberi per far cadere i motociclisti saliti per fare enduro. Una volta accolse le forze di polizia nel suo allevamento, dove per via di una malattia delle mucche era previsto che sopprimessero il bestiame. Li fece entrare nel magazzino e poi li chiuse dentro, ma nella stalla, oltre alle mucche, ci aveva messo una tigre (ora imbalsamata al museo di scienze naturali di Camerino). Ma quante ne conosciamo, ambientate in piccoli paesi, a cavallo tra il potere del borgomastro e il potere di tutti. Fuorché di chi dovrebbe far rispettare le regole.
