Pare stia per morire da come si affanna. Un po’ sarà la fretta, un po’ il freddo umido dell’inverno uggioso che s’infila nelle ossa, un po’ i vapori tossici che si alzano dal marciapiede appena incatramato. La vecchia signora con la pelliccia leopardata è sprofondata con tutta una scarpetta in una pozzanghera in mezzo alla carreggiata chiusa per lavori, dove il macchinario infernale che rimesta e mantiene bollente il nero bitume sputa come un diavolo un’alta colonna di fumo nell’aria gelida. La signora è in ritardo per il funerale di Ornella Vanoni e le auto che le sfrecciano accanto non badano affatto a quanto sia spaventata dal mondo che la circonda. Di fronte alla chiesa di San Marco in Brera c’è già un mare scuro d’ombrelli che ondeggiano pericolosi ed appuntiti nell’aria gelida di fine novembre. La polizia municipale schierata all’ingresso non fa più entrare nessuno. La fede dell’affaticata signora è troppo scossa ormai, ma prega, pensa tra di sé “proviamo anche con Dio, non si sa mai”, e si fa il segno della croce, rassegnata, sotto una pioggerellina gelida e assassina. “Eh era brava sì”, “ha fatto pure del teatro, del cinema” commentano due vecchiette, snocciolando l’intera biografia di Ornella Vanoni, dalle scuole Orsoline al teatro con Strehler, passando per l’amore con Gino Paoli. Un signore con i baffi bianchi ed il cappello da alpino si unisce e confessa con un sorriso da bambino che la sua ultima canzone è riuscita a fargli “cambiare idea su Mahmood”. Poco più in là, però, sta accadendo qualcosa. La gente commenta, sussurra sibillina, “la monarchia è finita da un pezzo”, qualche risatina maliziosa, “una bella lezione di democrazia per chi non ha mai lavorato in vita sua”.
Gli agenti della municipale sbarrano il passo ad un’anziana signora con un sobrissimo cappotto rosso fiammante e una sciarpa di visone nera, un cappellino nero a tesa corta con corona d’oro, orecchini d’oro, tutta inanellata, accompagnata da una signora che probabilmente è la sua servitrice. A suo dire, è l’ultima contessa della dinastia Giustinian, Francesca, nata Vendramin, quindi due volte contessa. Anche lei, arrivata tardi, non viene fatta entrare nella chiesa di San Marco e rimane in mezzo alla plebe, sotto la pioggia, senza ombrello. “Sono molto fiscali, e non capiscono niente”, commenta sconfitta l’anziana nobildonna che da giovane doveva essere molto bella. “Avevo diciannove anni io, e mi accompagnava mio cugino, il conte Angelo Vendramin, a Verona, a vedere ‘L’idiota’ di Dostojevskij diretto da Strehler e la Ornella ne aveva venticinque, bravissima già allora, molto intensa. Siamo sempre stati in contatto. L’ho vista alla Capannina, alla Bussola, quando c’era ancora la Mina. Ho conosciuto un po’ tutti. La Milva, amica della Iva Zanicchi, che trovo un po’ così, ma ha una voce…”. A questo punto la contessa stupisce tutti e si mette a cantare “Solitudine” - di Iva Zanicchi, appunto - “la mia solitudine, sei tu, la mia rabbia vera sei solo tu, io non so chiedermi il perché, testarda io che amo solo te… la la la… Io dirigo un’orchestra lo sa? Per i poveri, però. Perché del denaro non ho bisogno, e quel che guadagno lo do in beneficenza. La musica illumina la vita, come pure non essere attaccati al denaro. Nudo sei nato senza un euro, e nudo muori. La gente non ci pensa. Re Mida è morto di fame e di sete, nel suo caveau, dove se ne stava ad osservare l’oro. La porta blindata si è chiusa, nessuno se ne è accorto ed è morto”. La rappresentazione, però, viene interrotta da una donna di mezza età che infastidita dalla vanità della contessa chiede un po’ di silenzio, “per non disturbare la concentrazione di tutti verso Ornella”. La contessa acconsente con deferenza alla richiesta e poi con discrezione sussurra “Ubi maior, minor cessat”.
Il feretro della Vanoni, nel frattempo, esce dal portale della chiesa e viene accolto da un lungo applauso proveniente dalla folla di gente infreddolita. Ora l’auto che lo trasporta si fa strada in mezzo alla gente che regala il suo ultimo e caloroso saluto a Ornella, che se ne va in mezzo ai mille crisantemi che rilucono da dietro i vetri appannati della vettura. Chi ha assistito alla cerimonia e all’esibizione di Paolo Fresu inizia ad allontanarsi. Prima Amadeus a braccetto con la moglie, poi Ornella Muti, Beppe Sala. Chi invece fino a quel momento è rimasto fuori, contessa inclusa, si addentra ora nella chiesa di San Marco. Il funerale è finito, ma ne restano le tracce più vive, che ancora vibrano di commozione. Vicino alle acquasantiere ci sono le gipsofile – simbolo di purezza – lasciate da parte della redazione di Che Tempo Che Fa, ornate dal nastro verde, a simboleggiare l’eternità. Come pure l’enorme mazzo di rose bionde posate sull’altare dal suo amatissimo Gino Paoli. Poi è il tempo delle orchidee bianche da parte di Francesco Gabbani. Le rose rosa del Presidente Ignazio La Russa e i gigli bianchi del sindaco Beppe Sala. Su di un banco a destra dell’altare, vicino ad una piccola cappella laterale un mazzo di rose lasciato in disparte con un bigliettino “dai tuoi ragazzi del presente, per te, ragazza del futuro”. Ma le luci si spengono. Cala il silenzio e la chiesa inizia a svuotarsi man mano. Rimane nell’aria la preghiera di una donna. E’ una preghiera recitata tra i singhiozzi, con le mani unite a sostenerne il capo reclinato. E’ rimasta da sola. E’ un colloquio privato il suo, sta parlando con Ornella e quando si è asciugata le lacrime, a fatica si rimette in piedi. Prima di abbandonare la casa del Signore si avvicina all’altare e lì vi posa un sottile bouquet composto da tre rose. Una bianca, una rossa e una bionda. C’è anche un bigliettino sul quale, con calligrafia un po’incerta, c’è scritto qualcosa. “Tu sarai lassù a cantare con gli Angeli. Ci rivedremo quando non so, ma un giorno ti vedrò. Tua, Francesca Giustinian”.