Nell’ultima puntata de Le iene si è parlato del suicidio di un ragazzo, Daniele, un 24enne di Forlì che aveva intrattenuto per circa un anno una relazione in chat con un signore di 65 anni spacciatosi per una ragazza, Irene Martini. Daniele ha scelto di togliersi la vita, impiccandosi in casa sua a settembre del 2021. Ora, il tribunale aveva stabilito per il sessantacinquenne la sola pena prevista per la sostituzione di persona, facendo cadere qualunque accusa legata al suicidio del ragazzo. Il servizio, dopo aver ricostruito la storia, ha scelto di puntare l’attenzione su questo. E sembrerebbe, in un primo momento, sacrosanto. Sennonché il signore, come Daniele, ha scelto di uccidersi con un mix di farmaci durante la notte del 6 settembre.
Al di là dei crismi che la deontologia giornalistica dovrebbe imporre, colpisce il fatto che Le Iene abbiano montato la vicenda in modo tale da fare apparire il sessantacinquenne di Forlimpopoli non solo come colpevole della morte del ragazzo, ma anche come una persona per nulla pentita. La medicalizzazione dei personaggi, attraverso la voce di un’esperta come Giuliana Barberi, ha fatto sì che da un lato Daniele fosse il ragazzo solo, depresso e fragile, mentre il signore un mostro apatico, del tutto impermeabile al dolore, più volte manifestato, della sua vittima. L’accusa di morte per altro reato è caduta per via di un messaggio, presente nella chat, in cui il sessantacinquenne avrebbe scritto a Daniele di non tentare il suicidio, dal momento che «la vita è preziosa». Sarebbe bastato questo al tribunale – ma non a Le Iene – per non incolpare il signore. Lo stesso, poi, avrebbe continuato, sempre sotto falso nome, a circuire altri ragazzi. Questo fino a questo weekend, quando ha scelto di togliersi la vita.
Dal video de Le Iene, e da quanto detto, tutto traspare fuorché il rimorso. Eppure si è tolto la vita, forse per la vergogna di essere stato riconosciuto. Ecco il primo problema. Nonostante i volti fossero stati oscurati, le immagini de Le Iene non hanno certo impedito che il soggetto fosse identificabile. Oltre alla presenza della madre in carrozzina, infatti, il servizio mostrava in modo molto nitido i tatuaggi della persona. Chi vive nella stessa città non ha fatto fatica, dunque, a capire di chi si trattasse. Abbiamo chiesto a Michele Partipilo, direttore de La gazzetta del Mezzogiorno e autore di numerosi volumi sulla deontologia professionale, un parere sulla vicenda: «L’amplificazione, quando si tratta di soggetti fragili, può avere conseguenze imprevedibili. […] Il volto di una persona lo si mostra per farlo riconoscere. La questione è questa: o l’immagine si può mostrare, o non si può. Reputo un’imbecillità professionale quella di mostrare un volto e poi coprirlo. Non ha senso, è una presa in giro per l’utente. Anche perché alcuni volti sono comunque riconoscibili, spesso e volentieri. Non solo, ci sono alcuni casi, come mi sembra questo, in cui i soggetti vengono comunque riconosciuti per via di altri elementi. È un errore che accade spesso, soprattutto con i minorenni».
Alla luce della seconda morte in questa vicenda, la smania di buttare il mostro in pasto a un pubblico, rincorrendolo e creando delle condizioni di stress in cui il soggetto avrebbe potuto rispondere qualunque cosa, passando ancora di più per l’antagonista, senza possibilità di condono, solleva molti dubbi su una pratica giornalistica sempre più spettacolarizzata. Partipilo ci spiega, inoltre, che questo problema è causato dal fatto che i servizi vengono spesso affidati a non giornalisti: «Non sono tenuti all’osservanza delle regole deontologiche. Le conseguenze ci possono essere e molto spesso ci sono». Non si tratta neanche di dilettantismo giornalistico. La domanda è più radicale: si può effettivamente parlare di giornalismo? Quando l’inchiesta rischia di sostituirsi alla giustizia, al giudizio degli organi preposti a emettere una sentenza, si sta facendo informazione o si crea, piuttosto, il contesto adatto a un’esecuzione in pubblica piazza delle vittime? Non è neanche un problema di colpevolezza o meno. Non importa se il sessantacinquenne meritasse effettivamente di essere definito mostro. Il giornalismo non dovrebbe suggerire mai giudizi del genere, almeno apertamente, come invece è stato fatto.
C’è chi, in cuor suo, penserà che si sia fatto, in un modo poco ortodosso, un servizio pubblico. Un altro schifoso è sparito dalla circolazione e senza il servizio de Le Iene avrebbe continuando a rovinare la salute psicologica di altri ragazzi, come sembrava stesse per fare. Quasi a suggerire che il servizio andato in onda abbia fatto sì che l’uomo smettesse di delinquere. Ma le cose non stanno così. Il servizio de Le Iene, se effettivamente ha avuto un ruolo, ha portato alla morte di un’altra persona. E solo collateralmente, dunque, ha fatto sì che smettesse di delinquere. È mancata tutta quella rete di assistenza che avrebbe dovuto correttamente interpretare il caso. Due vittime sono rimaste sole di fronte ai propri mostri. La prima, Daniele, faccia a faccia con la seconda, una volta carnefice; la seconda, faccia a faccia con il pubblico ludibrio, l’apatia e un’impostazione mediatica troppo spesso sommaria, fatta di sovraesposizione del caso e non di reale approfondimento. Due vittime, Daniele e il signore di 65anni, che portava a spasso sua madre, che si fingeva Irene Martini, Claudia, Braim Martini (il fratello di Irene). Daniele, prima ancora che vittima di questo signore, è stato vittima di un male nascosto, mascherato ai suoi genitori. Un ragazzo che prima di andarsene scrive di essere sempre stato solo, senza amici né ragazza. Un ragazzo che a Claudia, uno degli account fake del sessantacinquenne, confidava di essere depresso. Un male troppo spesso irriconoscibile, come tanti altri. E sarebbe ingenuo credere che l’uomo trovato morto da sua madre in overdose da farmaci, non ne avesse nessuno, che fosse semplicemente cattivo. Il cattivo. Con buona pace per un pubblico fin troppo abituato a uno spettro emotivo ridotto all’osso e insufficiente.
C’erano altri modi di affrontare il caso, partendo da un’accusa verso le istituzioni e gli organi giudiziari. Denunciare una stortura del sistema, evidenziare dove il meccanismo si inceppa. Trovate voi la metafora. In due parole: prendersela con i potenti. È vero, Le Iene ha spesso affrontato, faccia a faccia, la schiera dei nostri politici, singolarmente e non. Ma quello non è il vero potere. Sono volti, prestanome di un’entità ben più grande e non incarnata. Vale la pena di ripeterlo: il sistema. E forse il giornalismo è lì che dovrebbe puntare, garantendo il diritto alla presunzione di innocenza, al rispetto – come sottolinea anche Partipilo – della dignità umana. Risulta persino un po’ ipocrita chiedere al “mostro” rincorso di non lanciare sua madre in carrozzina contro la troupe. Come se questo minasse l’incolumità della signora più dell’essersi trovata addosso una squadra di professionisti con telecamere e microfoni che incalzava suo figlio in preda al panico. Ciò che è accaduto non è la solita vicenda tragica su cui sarebbe meglio fare silenzio, come si suol dire. Al contrario, sia la prima che la seconda morte dovrebbero farci interrogare: come spettatori sul tipo di giornalismo che desideriamo, come soggetti politici sul modello di giustizia che chiediamo.