La prima cosa a cui ho pensato è stata quella punizione. Finale di Coppa Italia a San Siro, io ero in curva. Lui prende la rincorsa e la mette lì dove la metteva sempre: incrocio dei pali. Inter 1 - Roma 0. Fu bellissimo perché è stato in quel momento che tutti capimmo una cosa: da lì in poi sarebbe iniziata una stagione di vittorie, scudetti, coppe, il Triplete. Sinisa Mihajlovic lo vivo così: uomo di frontiera. Di prima linea. E pensare che qualcuno, ieri, sui social lo abbia attaccato per la sua origine serba e per la sua amicizia con il criminale di guerra Arkan mi ha provocato prima rabbia e poi pietà. Pietà perché nulla sanno e nulla sentono coloro i quali pensano così.
Oggi mi sono svegliato e ho letto i giornali, per leggere chi lo conosceva davvero, non i coglioni da tastiera. La sua ultima intervista. La sua biografia. Il suo biografo. Il fratello Roberto Mancini. Sulla Gazza hanno pubblicato un pezzo del suo libro, La partita della vita: «Sono sempre stato un uomo difficile, divisivo, che si esaltava nello scontro. Non mi sono mai nascosto, prendendo anche posizione scomode. Di certo non ho mai recitato. Ho vissuto spesso a muso duro. Ho sbagliato, ma sempre da uomo. E i miei errori li ho sempre pagati, senza sconti». Un maestro. Non ha mai giustificato Arkan, ma l'amicizia con lui non l'ha mai rinnegata. Perché non si rinnega niente, chi ci mette la faccia lo sa. Gli errori si ammettono, non si negano. Ci ha messo la faccia anche nella leucemia.
Dopo il primo ciclo di cure, si presenta comunque in panchina del Bologna per l'inizio del campionato. Nella sua ultima intervista a Marco Imarisio del Corriere della Sera racconta: «Rischiavo di cadere per terra davanti a tutti ma volevo dare un messaggio. Non ci si deve vergognare, bisogna mostrarsi per quel che si è. Volevo dire a tutte le persone nel mio stato di provare a vivere una vita normale, fossero anche i nostri ultimi momenti». Un altro pezzo da leggere è quello di Andrea Di Caro, sempre sulla Gazzetta, che lo ha aiutato a scrivere la biografia: «Prima di mangiare ordinava sempre due grappe: una per lui e una in onore di suo padre. Stavolta ne basterà solo una, perché lui sarà accanto a te a bere la sua». Poi Di Caro parla della sua famiglia, il suo orgoglio, la moglie Arianna che gli procurava l'unico sollievo dai dolori («Incrociare i suoi occhi mi fa battere il cuore come la prima volta») e i cinque figli e la prima nipote. Sognava una vecchiaia da capotavola, Sinisa: «Io con la barba lunga e bianca e loro tutti intorno».
Roberto Mancini, 28 anni di spogliatoi, campo e amicizia, l'ha visto pochi giorni fa e ha capito che sarebbe stata l'ultima: «Mi piace pensare che non è vero che non ho più un fratello. Semplicemente è andato da un'altra parte, ovunque sia, e da lì continuerà a farmi sentire la sua forza». Di Caro, il suo pezzo, lo chiude così: «Ti ho visto magro come una stampella, trascinarti stanco in una stanza di ospedale, ma per me sei sempre rimasto un gigante». Io invece chiudo con un pensiero del giornalista Antonello Piroso, che cita Leonardo Sciascia: «Ci sono quelli che non prendono mai posizione, in vendita per il miglior offerente, i viscidi, i senza palle, gli ipocriti, i sepolcri imbiancati, i doppiogiochisti, i mezzi uomini, gli ominicchi e i quaquaraquà. E poi ci sono i Sinisa». Già. E poi ci sono i Sinisa. E noi dobbiamo solo scegliere da che parte stare.