Mercoledì sera abbiamo portato Virginia a un appuntamento. Per la prima volta è uscita da sola insieme ad altri disabili. Sulla porta le ho passato 20 euro: "Guarda Virgy, qua ci sono i soldi, mi raccomando". Il suo portafoglio rosa, la sua borsetta, i suoi soldi. La sua serata. Un altro passo verso la vita adulta. Il ritrovo era in un centro culturale. Siamo entrati, abbiamo conosciuto gli assistenti, i nuovi amici di Virginia, e mentre mi parlavano ho notato un cartello dietro di loro. C'era una domanda, tutta in maiuscolo: come sto oggi?
Come sto oggi? Sto che oggi, 20 novembre, ore 6:37, ho 43 anni. Sto che in questi giorni ho visto un film con mio figlio sulla vita di un giocatore dal cognome strano, Giannis Antetokounmpo. I suoi genitori sono scappati dalla Nigeria, poi dalla Turchia sono arrivati in Grecia. In Grecia fanno lavori umili, restano sempre uniti e sempre molto poveri. Nessuno gli riconosce mai la cittadinanza. Poi Giannis e suo fratello più grande scoprono il basket. Ed ecco la svolta. Un osservatore lo nota, prova a piazzarlo in qualche squadra, ma è un clandestino e nessuno lo vuole. Fino a quando un team spagnolo, il Saragoza, si accolla il rischio, lo tessera e lo fa partecipare ai draft NBA. Finisce ai Bucks di Milwaukee, che ha riportato a vincere il titolo dopo 50 anni. Ora in NBA è uno dei migliori in assoluto. Ora la sua famiglia è tutta in America, compreso un fratello abbandonato in Nigeria. Ora è il simbolo della nazionale greca.
Ditelo, ai Salvini, ai nazionalisti, a chi vuole le frontiere chiuse. Io sono stato un immigrato da sud a nord, una delle mie figlie è handicappata. A chi mi parla di escludere invece di unire mi verrebbe da prenderlo a testate. Perché ha già perso e non ha mai imparato. Un rappresentante della Nike chiede a Giannis: perché dovrei scegliere te? E lui risponde semplicemente raccontando da dove viene. E chiude così: "Adesso voglio riunire la mia famiglia, devo solo fare la mia parte". Che non significa pensare solo a se stessi e poi sperare che ci pensino gli altri. No: vuol dire fare tutto ciò che c'è nelle proprie possibilità, insistere, far succedere le cose.
Come sto oggi? Sto che giovedì, dopo anni che non ci andavo, sono tornato a un raduno dell'associazione bambini Cri du chat di mia figlia, in una villa meravigliosa fuori San Casciano Val di Pesa. Virginia era la più grande, gli altri erano quasi tutti bambini di due-tre mesi. Negli occhi dei genitori ho rivisto i miei, i miei e quelli di Ginevra, ho rivisto gli stessi sguardi, le stesse domande, lo stesso bisogno di essere preso per mano e trovare qualcuno che ti indichi la strada. Ma in molti di loro ho riconosciuto anche la forza di lottare. E chi lotta ama.
Come sto oggi? Sto che ieri l'ho passato ascoltando una canzone di Brunori, Il costume da torero. E mi dico: vedi, è tutto collegato. A un certo punto c'è una strofa: la realtà è una merda ma non finisce qua. La storia della famiglia di Giannis. I genitori di neonati disabili. Tutte le nostre piccole o grandi fatiche e disgrazie e sofferenze. Tutte. Ci dicono che sì, la realtà è una merda, ma facendo la nostra parte ne possiamo uscire, sempre.
Devo solo fare la mia parte. Per i mie figli. Per chi mi ama. Per chi si affida a me. Per Tìo che mi racconta che a sua moglie è stata diagnosticata il bipolarismo di tipo II, e che non riesce a parlarne e io gli rispondo: e lo dici a me? Di Virginia mi vergognavo e non lo dicevo a nessuno e mi sono ritrovato a piangere in treno parlando a un prete. Per i toreri che vogliono salvare il mondo intero, per chi non sarà mai abbastanza cinico, per il coraggio, per i miei amici, pure per Banhoff che non sento più ma va bene così. Per Nicola che durante una festa mi racconta della compagna che lo ha lasciato dopo 18 anni, e io a tutti rispondo la stessa cosa, a lui, a Tìo, ai genitori del raduno: sentitela tutta questa sofferenza, affrontatela, immergetevi nella vostra storia, lottate, prendete appunti. Sarà la vostra risorsa, vi insegnerà molte cose che non sapete, vi ritroverete pure a ringraziarla.
Come sto oggi? Sto che ho conosciuto Jack, ultimamente. Ci siamo sfiorati più volte e poi ci siamo fermati davanti a un bancone di un bar. Ho notato una parola tatuata sul suo braccio, lui si è tirato su la camicia e mi ha letto l'ultima frase de Le città invisibili di Calvino: ”Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Sto che quando sono andato a prendere Virginia, sono arrivato in anticipo e ho aspettato che finisse il dolce. Un ragazzo a capotavola mi diceva continuamente quanto fosse bravo a pitturare le persiane. Un altro mi ripeteva come si chiamava agitando le mani. E un altro che faceva fatica a pronunciare il suo nome mi ha raccontato che si spara la Napoli-Capri a nuoto, 36 km in mare aperto, e ha vinto pure tre medaglie, due di bronzo e una d'argento.
Sto che oggi ho 43 anni. Sono le 7:19. È il mio compleanno. Forse mi addormento ancora, forse no. Ci proverò stringendo forte Orlando nel letto con me, pensando che sto bene, va tutto bene, che amo e mi amano, sono le relazioni i veri investimenti. E so tutto questo: che se ti guardi intorno a volte la realtà può essere una merda ma puoi fare la tua parte, imparare a nuotare e migliorarla. E che pure in mezzo all'inferno, puoi prendere ciò che inferno non è e dedicargli spazio.