Il 17 dicembre, come ogni anno, si celebra la Giornata Internazionale contro la violenza sulle sex worker. Cioè? Diciamo che per ventiquattro ore si finge di ricordarsi che esiste una categoria di persone che prende botte, viene rapinata, stuprata, minacciata e che, se prova a denunciare, spesso si sente rispondere con un’alzata di spalle moraleggiante. Poi il 18 si torna a parlare d’altro, possibilmente con la solita retorica sul degrado, sulle strade da ripulire e sulla parola prostituzione usata come se fosse una categoria penale e non un contenitore ideologico buono per non capire nulla. Questa giornata nasce nel 2003, non ieri, grazie a Annie Sprinkle e Robyn Few. Nasce perché la violenza sulle sex worker non è un incidente, ma un sistema: funziona grazie allo stigma, alla vergogna indotta, all’idea per cui se vendi sesso allora un po’ te la sei cercata. È una forma di violenza socialmente tollerata. E quando una violenza è tollerata, diventa strutturale. In mezzo a questo pantano, Escort Advisor (primo sito europeo di recensioni di escort) decide di dire una cosa che manda in tilt metà del dibattito pubblico, sex work is work. Non perché sia bello, liberatorio o rivoluzionario, ma perché è reale. È lavoro. E come tutti i lavori, se resta nell’ombra diventa più pericoloso, più ricattabile, più violento. Chi finge di non capirlo di solito lo fa per una ragione molto semplice: non vuole sporcarsi le mani con la complessità.
Perché la verità è che il lavoro sessuale non è una favola unica e lineare. C’è la persona migrante sfruttata da reti criminali, certo. Ma c’è anche chi lavora in modo autonomo, consapevole, organizzato. In mezzo c’è un mondo di sfumature che non rientrano nei talk show urlati. Ridurre tutto alla parola prostituzione” serve solo a una cosa, non risolvere niente. Anzi, peggiorare tutto. Escort Advisor, invece di limitarsi ai comunicati indignati, ha messo in piedi qualcosa di molto più noioso ma pure molto più utile, uno sportello. Si chiama “L’Esperto Risponde” ed è attivo da novembre 2024. Funziona così: avvocati, commercialisti, esperti di immigrazione e psicologi rispondono alle sex worker su temi concreti. Fisco, diritti, sicurezza, permessi, procedimenti penali. Cose che non fanno audience, ma salvano la pelle. I numeri raccontano una storia diversa da quella che piace ai moralisti perché il 60% delle richieste riguarda il fisco. Poi arrivano il penale, l’immigrazione, il civile. Tradotto, le persone vogliono lavorare senza finire stritolate, non essere salvate da chi non le ascolta. Vogliono sapere come difendersi, non come essere giudicate.
A coordinare il progetto c’è l’avvocata penalista Ilia Comi, che dice una cosa disarmante per quanto è semplice, ovvero che molte sex worker pensano di non avere diritti. Non perché siano stupide, ma perché glielo abbiamo insegnato. Lo stigma fa questo, ti convince che se denunci non ti crederanno, che se chiedi aiuto verrai punita due volte. E infatti spesso succede. Escort Advisor, che ogni mese intercetta milioni di utenti e indicizza migliaia di annunci, si prende una responsabilità precisa, smettere di raccontare il sex work come un’anomalia morale. E non per bontà d’animo, ma per logica. Dove c’è informazione c’è meno violenza. Dove c’è consapevolezza c’è meno sfruttamento. Il prossimo passo è il Centro di tutela e prevenzione SexWork-SafeWork, un canale di emergenza attivo 24 ore su 24 per segnalare pericoli, aggressioni, situazioni di sfruttamento. Operatori formati, contatti con le istituzioni, risposte rapide. Roba concreta. Non hashtag. Il 17 dicembre serve a ricordare una cosa che in Italia facciamo finta di non sapere, il problema non è il sex work. Il problema è lo stigma che lo circonda. Ed è uno stigma che non protegge nessuno, se non chi preferisce che tutto resti invisibile. Perché l’invisibilità, quando si parla di violenza, è sempre la miglior alleata dei violenti.