Dirlo è attirare su di sé gli anatemi dei buonisti del giornalismo, cioè i cattivi giornalisti che hanno tentato di emarginare certe figure scomode che invece a noi piacciono. Ma ne vale la pena. E se Filippo Facci fosse il miglior giornalista che abbiamo in Italia? O almeno il più godibile. Non ne ha mai sbagliata una? Ovviamente no, conoscete giornalisti che non sbagliano? I grandi fisici producono quanto? dieci teorie in tutta la loro vita? E nove di esse magari sono sbagliate (se non nove, sette). Vale anche per Einstein e noi lo perdoniamo. Ma non accettiamo che un intellettuale che firma mediamente un articolo al giorno possa in decenni di carriera sbagliare una frase o un’opinione? La risposta in Italia è no, perché in quello strano mondo fatto di delatori, moralisti e gilde professionali, non puoi permetterti frasi sbagliate né, tantomeno, opinioni sbagliate. Fu così che tentarono con Facci la damnatio memoriae per un’uscita effettivamente un po’ buttata lì, una battuta troppo facile per uno del suo livello, certamente scarsissima: “…risulterà che una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa…” (provarono e riuscirono anche a cancellarlo dalla Rai; era lo stesso anno del “bastarda” detto da Saviano a Giorgia Meloni; uscita che non gli impedì di andare in onda con un programma che fu un flop un anno dopo). Ora che il figlio del Presidente del Senato non dovrà più difendersi dall’accusa di stupro (ma solo da quella di revenge porn), Facci gongola. Ma questa storia è talmente periferica rispetto all’osso della sua storia giornalistica che potrebbe rivelarsi essere, più che la pelle del polemista, qualche millimetro di polvere che in un Paese civile dovrebbe essere facile lavarsi via.
D’altronde è l’arma a doppio taglio dello stile, cosa che Facci ha, così come delle opinioni, altra cosa che Facci ha. In un mondo di giornali che fanno diventare non solo notizia ma persino “editoriale” l’opinione dei protagonisti dei casi di cronaca (ricordate le paginate intere con l’opinione pressoché sbobinata della sorella di Giulia Cecchettin o di suo padre, come se avessero qualche importanza?), chi sopporta i giornalisti di una volta, quelli che dicono le cose come stanno o se commentano dicono ciò che pensano, senza grandi strategie comunicative ed eufemismi? Facci è uno che nell’era dei manettari, in un mondo in cui il giustizialismo è egemone e lo si sniffa come una droga tanto a destra quanto a sinistra (da Report a La7, passando per Rete4), scrive La guerra dei trent’anni (Marsilio, 2022), cioè un libro in cui si smonta il mito di Tangentopoli (questa è, ovviamente, una sintesi inefficace di un volume di settecento pagine) e di una “giustizia fine a se stessa”, dunque per tautologia sempre giusta. Poi, non pago di essere impopolare, scrive di musica classica. E infine si butta direttamente nella guerra culturale di questi anni per cui sembra essersi preparato tutta la vita con un Dizionario del politicamente corretto (Liberilibri, 2025), un lungo elenco di insensatezze woke chiarite una volta per tutte al pubblico italiano.
Insomma, molto materiale per farsi attaccare. Peccato che Facci faccia ancora ottima cronaca. Potrebbe, dopo decenni di carriera, limitarsi ai suoi due cents, al trafiletto da arrivato giornalista di razza. Invece, proprio perché evidentemente a lui il mestiere di giornalista piace davvero, ha la pretesa, anch’essa inattuale, di fare informazione. Basterebbe guardare la sua pagina autore nel sito de Il Giornale. Caso Ranucci: mentre tutti erano solidali con il giornalista di Report ipotizzando la qualsiasi sul caso dell’esplosione dell’auto in provincia di Roma, Facci è stato l’unico che, dopo aver reperito informazioni di un agente, si è posto la domanda che nessuno si era ancora fatto: e se Ranucci non c’entrasse nulla con la bomba? Caso manifestazioni pro-Pal: Facci ci racconta una storia diversa sia dalla destra che dalla sinistra, spiegando che un sesto dei partecipanti vota centrodestra, che ci sono cittadini regolari, con contratti a tempo indeterminato, che non sono piazze e strade pilotate dei centri sociali, non solo almeno, e che forse c’è qualcosa di più complesso e controverso dietro quelle proteste. Caso libertà di stampa (cioè ancora caso Ranucci): il Movimento 5 Stelle che manifesta per il giornalista di Report si ricorda che storia ha il grillismo con la libertà di parola? Pessimo, ce lo ricorda sempre Facci, come quando definivano i giornalisti “strumenti di regime” e “pennivendoli” o evitavano i talk show televisivi, cioè il contraddittorio in diretta.
Infine caso riforma della giustizia: non è (solo) una “riforma Nordio”, ma un tentativo di migliorare le cose che si ripete da oltre venticinque anni, che ha coinvolto politici di destra e di sinistra, persino i Radicali; ci hanno provato tredici volte, dodici delle quali non c’era di mezzo né Giorgia Meloni né il suo ministro della giustizia. Questa è comunque una notizia, almeno per i giovani così convinti che la riforma della giustizia sia un pericolo per la democrazia. Seconda notizia: L’Anm (l’Associazione nazionale magistrati) potrebbe sciogliersi se la riforma passasse avremmo un collegio giudicante e uno requirente, cioè di fatto due ordini che non potrebbero essere rappresentati da un’unica entità. Non vale la pena sapere una cosa del genere quando si cerca di capire perché l’Anm stia così veementemente protestando contro la riforma? In Italia lo ha scritto solo Filippo Facci. Abbiamo detto dello stile e delle opinioni, ma è evidente che Facci sia anche un giornalista particolarmente concreto, per nulla barocco. Per questo fa male al conformismo italiano, abituato a ben altre narrazioni. Ne restano pochi di giornalisti come una volta, di giornalisti così. Anche perché sopravvivono in un’Italia che tuttavia ha smesso da tempo di tollerarli.