“Turris illa toto orbe unica” la definiva Petrarca, e cioè unica al mondo. Che sia vero poco importa (e quanto del mondo sapesse Petrarca, considerando cos’era il mondo a quel tempo, sarebbe questione interessante). La Torre dei Conti, costruita milleduecento anni fa circa, è crollata parzialmente lunedì 3 ottobre, schiacciando un operaio rumeno di 66 anni, Octay Stroici, rimasto intrappolato per undici ore, poi tirato fuori e morto in ospedale. Non stupisce che l’operaio morto fosse rumeno, gli stranieri in Italia muoiono, in proporzione, almeno due volte più degli italiani (74,2 morti ogni milione contro i 29,7 ogni milione tra gli autoctoni; dati del 2024 a cura dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro e Ambiente Vega di Mestre). Fa strano immaginare un sessantaseienne dentro una torre millenaria praticamente abbandonata dal 2006, anche se l’età probabilmente non avrebbe fatto la differenza contro le tonnellate di pietre che lo hanno ammazzato. O forse no, così strano non fa. Ma cosa stavano facendo? Ristrutturavano per metterci dentro un museo. Costo 6,9 milioni di Pnrr, cioè soldi in prestito dall’Europa per il rilancio dell’economia post-Covid e per il progresso digitale e la cultura o turismo (Piano nazionale di Ripresa e Resilienza). Quindi la Torre dei Conti veniva evidentemente vista come un trampolino per il progresso economico, scientifico ed ecologico del Paese o come fondamentale per il turismo romano, soprattutto ai fori imperiali. Mah.
Quando la Torre Garisenda di Bologna stava per crollare vennero in tanti, anche Vittorio Sgarbi, in pellegrinaggio ai piedi dello storto e vetusto magnete turistico della città. Io andai per altri motivi a casa del filosofo Stefano Bonaga, a pochi minuti dalla Torre (dal suo terrazzo la vedi praticamente sopra la tua testa). Gli chiesi se non avesse in pena quel che stava accadendo, un monumento con cui Bologna da sempre si identifica rischiava di sparire. E lui, consumando forse la quinta sigarette, rispose così: “Caro, no, Bologna ne aveva decine di torri così. Le torri antiche crollano, pazienza. Abbiamo vissuto senza le altre, sopravviveremo senza questa”. Ecco, le torri antiche crollano, pazienza. Mi ha fatto pensare: forse la nostra apprensione per i monumenti antichi è talvolta una reazione freudiana al vuoto della modernità. Non ci preoccupa che la torri crolli, ma cosa potrebbe prendere il suo posto. Lo storico Bryan Ward-Perkins ricorda nel suo La caduta di Roma e la fine della civiltà che un modo per capire la rottura tra epoca romana e oggi sia guardare alla perdita delle competenze tecniche, per esempio tutta quella conoscenza necessaria per costruire delle tegole al livello di quelle antiche, conoscenza che non abbiamo più. Un altro storico, Edward Gibbon, sembra sia stato ispirando a parlare della caduta di Roma l’orribile visione di una processione di salmodianti tra le rovine del Tempio di Giove in una Roma settecentesca, metafora perfetta di come la debolezza cristiana avesse ucciso l’Impero. Forse abbiamo interiorizzato questa credenza, al punto da sentirci più deboli e incapaci, troppo deboli e incapaci per costruire qualcosa di nuovo e di grande e sicuramente troppo deboli e incapaci per lasciare che la torre crolli, “pazienza”.
Ci crediamo la gente dei palazzi, dei monumenti, delle torri, ma siamo la gente dello stucco, che va in giro a coprire le crepe. Forse la Torre dei Conti merita di essere salvata ma è difficile immaginare un monumento antico che saremmo disposti a lasciare al suo destino. Se scoprissimo cinquanta torri come questa non vorremmo che nessuna di esse crollasse, anche se probabilmente la presunta scarsità di esemplari (ricordate? “Unica al mondo”) oggi potrebbe spingerci a ritenere fondamentale salvaguardare quest’edificio nel cuore di Roma. Sarà sicuramente anche eccessivamente sbrigativo e da insensibili ritenere la Torre dei Conti, nel contesto di Roma, uno dei tanti “coccetti” nelle vetrine di un museo che ha ben altro da offrire, al massimo un piatto tra tanti piatti esposti in sale che tendenzialmente bypassiamo. Forse il surplus di opere medievali in Italia potrebbe farci tollerare la perdita di una torre di fine IX secolo. O forse no, sta alla sensibilità di ognuno di noi. L’operaio è morto e ne parleranno giornali e sindacati, la torre è mezza crollata per l’ennesima volta (anche in passato, tra Trecento e Settecento, subì dei danni per via dei terremoti, un po’ come potrebbe essere accaduto ieri per via della scossa di magnitudo 3.3 di domenica 2 novembre) e ne parlano tutti. Che il problema sia di ordine storico può valere per pochi eletti effettivamente interessati alla storia, mentre gli altri la confondono semplicemente col turismo, con il selfie. Che tutto questo sappia, comunque, di approccio nietzschianamente antiquario, e che valga dunque come ammissione di sterilità culturale, non lo escluderei.