Come si fa a parlare d'Africa, direte voi, quando tutti i giornali parlano della guerra in Ucraina, dei nuovi missili di Vladimir Putin, dell'arsenale nucleare della Cina, delle navi da guerra statunitensi ammassate di fronte al Venezuela, del conflitto che si continua a combattere tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza nonostante il cessate il fuoco? Non solo si può parlare di Africa, ma si deve (imperativo) fare. E per tre motivi molto semplici. Il primo: la cosiddetta Terza Guerra Mondiale a pezzi (copyright di Papa Francesco) ha coinvolto da tempo anche l'intero continente africano. Le grandi potenze del pianeta hanno qui i loro interessi strategici e intendono espanderli, o difenderli, a costo di destabilizzare intere nazioni. Il secondo motivo riguarda invece la posta in palio: il dominio di nuovi mercati, di nuove rotte commerciali ma soprattutto il controllo di risorse energetiche talmente importanti (Terre Rare e non solo) da consentire, a chiunque avrà la meglio, di trasformarsi nel padrone dell'economia globale. Ci sarebbe poi un terzo motivo che dovrebbe spingerci a guardare a cosa accade oltre l'orizzonte del Mar Mediterraneo: ogni scossone geopolitico che ha come epicentro l'Africa, infatti, genera ondate migratorie che i governi europei devono affrontare pur avendo dimostrato di non saperle minimamente gestire. Ecco perché bisogna parlare anche di Africa.
Tracciati i perimetri del ring africano, quali sono gli attori protagonisti? Nel continente si fronteggiano due grandi categorie di forze: gli eserciti nazionali e le milizie jihadiste o paramilitari. I gruppi jihadisti più attivi, come Jnim (legato a al-Qaida, presente in Mali, Burkina Faso e Niger), Isis-Gs (Stato Islamico nel Grande Sahara), Boko Haram e la sua fazione Iswap (attive tra Nigeria, Ciad e Camerun), al-Shabaab (nel Corno d'Africa) e Isis-Mozambico, controllano ampie aree rurali, dove impongono tasse, amministrano una propria forma di giustizia islamica e conducono attacchi contro eserciti e civili. Sul fronte opposto agiscono milizie e forze paramilitari come il gruppo russo Wagner-Africa Corps, presente in Repubblica Centrafricana, Mali, Niger e Sudan; le Rsf (Rapid Support Forces), impegnate nella guerra civile sudanese; e le forze etiopi, eritree e tigrine, protagoniste dei conflitti interni nella regione del Tigray. A completare il quadro troviamo l'esercito egiziano, tra i più potenti del continente, che è già intervenuto indirettamente nelle crisi di Libia e Sudan, consolidando la propria influenza nel Nord-Africa. Capitolo attori esterni. La Russia, attraverso i mercenari della citata Wagner-Africa Corps, ha guadagnato terreno nel Sahel e nell’Africa centrale, presentandosi come alternativa all’Occidente in cambio di concessioni minerarie e sostegno militare alle giunte. La Cina adotta invece una strategia economica, costruendo infrastrutture e accordi commerciali nell’ambito della Belt and Road Initiative, con una presenza discreta ma capillare che le assicura accesso a minerali e porti strategici, come quello di Gibuti. Gli Stati Uniti, dopo anni di presenza limitata, stanno tentando di contenere l’avanzata russa e cinese attraverso missioni di intelligence e cooperazione militare con governi alleati. L’Europa, infine, pur indebolita dal ritiro delle missioni francesi, cerca di mantenere un ruolo politico e umanitario, nel tentativo di arginare instabilità e flussi migratori.
Qual è la posta in palio? In gioco non c'è solo il controllo militare dei territori (di questo non gliene fot*e un caz*o a nessuno), bensì il dominio delle più grandi riserve mondiali di oro, uranio, coltan, litio e Terre Rare. Ossia: risorse cruciali per la transizione energetica e digitale globale. Dalle miniere del Sahel ai giacimenti petroliferi del Golfo di Guinea, fino ai porti dell'Oceano Indiano e del Mar Rosso, l'Africa è il campo di battaglia per il controllo delle rotte commerciali e delle materie prime strategiche. Ma la competizione riguarda anche l'influenza politica e culturale: chi domina in Africa può orientare le alleanze del futuro, controllare flussi migratori e disporre di posizioni militari decisive tra Atlantico e Indo-Pacifico. Ma chi è che ambisce a combattere guerre del genere? No, non sono sempre i governi africani. Quando il continente è scosso da una rivolta, da un golpe, da una guerra civile, quando “ritorna” il terrorismo islamico, c'è (quasi) sempre la “manina” di un attore esterno. Quale? La nostra, intesa come occidentale, in compagnia di quelle cinesi e russe, e in misura minore turche e indiane. In altre parole, dietro ai conflitti che incendiano l'Africa non ci sono solo rivalità etniche o religiose, ma una guerra per procura tra potenze globali. L'Occidente — con Stati Uniti, Francia e alleati europei — ha per anni sostenuto governi locali con armi, addestramento e fondi, nel tentativo di contenere il jihadismo e preservare la propria influenza economica e politica. Il problema è che questa strategia spesso ha prodotto l'effetto opposto favorendo la creazione di regimi fragili, dipendenti dall’aiuto esterno e incapaci di garantire sicurezza, aprendo così spazi a nuovi attori. È proprio in questo vuoto che si è inserita la Russia, che attraverso la rete di Wagner ha costruito un sistema parallelo di alleanze: sostiene le giunte militari, combatte i ribelli jihadisti, ma in cambio ottiene miniere, concessioni e influenza geopolitica. Entrambi i fronti — occidentale e russo — usano l'Africa come scacchiera strategica, alimentando indirettamente guerre locali per difendere interessi globali. I cinesi giocano un'altra partita: quella economica. Più pulita, all'apparenza, perché nessuno spara missili o pallottole.