Forse Filippo Facci ha detto l’unica cosa che ancora non era stata detta sul caso Ranucci, e cioè sul caso ribattezzato “caso Ranucci”, l’esplosione dell’auto del conduttore di Report e dell’auto di sua figlia a Campo Ascolano, frazione di Pomezia, praticamente Roma. Potrei sintetizzarla nel modo in cui ho compreso un’altra inchiesta decennale, quella di Emanuela Orlandi, ovvero una storia basata, forse, su un grande equivoco, e cioè l’eccezionalismo della vittima. Oltre all’ultimo libro di Pino Nicotri, che pare smontare solidamente questa tesi (Emanuela Orlandi, il rapimento che non c’è), uscì un paio di anni fa anche uno studio dell’istituto NeuroIntelligence, curata da due criminologi, Franco Posa e Jessica Leone, in cui si mostrava che nello stesso periodo della scomparsa di Orlandi, e cioè tra maggio e giugno 1983, erano scomparse otto ragazze coetanee di Emanuela, e tutte nel raggio di cinque chilometri dal Vaticano. Se si allarga a quindi chilometri il raggio, il numero sale a sedici. Fine, almeno sul piano matematico, dell’eccezionalismo del caso Orlandi. Stessa cosa, secondo Facci, potrebbe valere per il caso di Sigrido Ranucci, forse vittima di un’intimidazione, ma forse no.

Secondo la firma de Il Giornale, una fonte interna dei Carabinieri del nucleo di Frascati, “probabilmente l’obiettivo non era neppure Ranucci” (queste le parole riportate nella testimonianza). L’esplosione, infatti, sarebbe avvenuta in una zona particolarmente soggetta a guerre tra clan, criminalità, ritorsioni ed esplosioni, piccoli furti, intimidazioni e altro. Spiega Facci: “C'entrerebbero varie e diverse dinamiche dell'hinterland romano: nella zona di Pomezia, Ardea, Ostia e dintorni le esplosioni artigianali non sono una rarità e, negli ultimi due anni, se ne contano diverse, quasi sempre frutto di rivalità di quartiere e vendette minime e regolamenti di conti”. Altri elementi farebbero pensare, secondo Facci, che il caso Ranucci non sia propriamente un “caso Ranucci”, ma che Ranucci, vivendo lì, abbia subito le conseguenze di una guerra in cui non c’entra. È facile, infatti, legare le passate minacce contro Ranucci all’attuale esplosione, ma dove sono le prove? Indaga la Direzione distrettuale antimafia, ma non è la prima volta. Ricorda Facci: “Pomezia e Ardea, a fine gennaio, la Polizia sequestra armi e 150 petardi ad alta potenza, più batterie monocolpo e "cipolle" artigianali. A giugno un’altra bomba artigianale devasta la palestra Di Napoli senza fare vittime: anche lì indagò la Dda. Tutti episodi nella stessa cintura costiera, e senza che, ieri, servisse un report riservato degli inquirenti per saperlo: le ricostruzioni sono tutte su giornali nazionali e locali. La tipologia è sempre quella: bombe carta improvvisate o artifizi pirotecnici modificati, materiale facilmente reperibile e potenzialmente letale”.

In senso stretto, mancherebbero la rivendicazione e gli strumenti utili per rendere tale un’intimidazione: “L'ordigno in effetti non aveva timer né telecomando, e l'esplosione dell'altra sera non è stata l'unica: il 27 settembre scorso c'è stato un altro scoppio in zona, e un altro il 4 ottobre”. La domanda è se possa considerarsi minatoria un’esplosione casuale mai rivendicata: quale inchiesta dovrebbe bloccare Ranucci? Una delle quattro di cui parlerà nella prima puntata di Report domenica 26 ottobre, o vecchie inchieste a cui si è tornati a lavorare ora? C’è chi dice la curva dell’Inter, chi la finanza, chi la lobby dell’eolico, chi la Repubblica dei poeti (no, non lo dice nessuno, ma una delle inchieste menzionate da Ranucci è quella sulla cultura). Un’ipotesi tra le tante è anche quella di Facci, allora, e cioè che forse non ci sia nulla di mirato in ciò che è successo. Un’auto come altre in uno spiazzale oggetto di scontri in passato e, probabilmente, in futuro. Se non fosse così, se l’esplosione non dovesse rivelarsi, dopo le indagini, casuale, è evidente che Ranucci dovrà essere difeso, ma questa, che pongo alla fine di un articolo che non vuole minimamente rompere, è in realtà solo una delle tante premesse indiscutibili, che è banale, per qualsiasi giornalista, dover ribadire.
