Il libro più “leggero” tra quelli pubblicati è un saggio sulla Gen Z di Walter Siti, e quindi capite bene quale sia il livello che Marina Berlusconi ha imposto a se stessa e alla Silvio Berlusconi editore, che compie un anno, è davvero alto. Certo, non venderanno come ricettari e influencer, o ricettari scritti da influencer, idra digitale che perfettamente sintetizza la sublimazione cognitiva a cui siamo sottoposti: il cibo, un tempo puro alimento, diventa contenuto puro, cioè forma senza sostanza (e infatti noi seguiamo i food influencer per la bellezza dei loro piatti, che non possiamo chiaramente mangiare). Mentre eviriamo l’esperienza estetica (ammirare il cibo senza mangiarlo), c’è chi si è convinto che la cultura possa salvare il mondo, slogan di cui si abusa ma raramente declinato in modo pratico. Per una certa cultura, la Kultura degli anni Sessanta e Settanta italiani, per esempio, l’intellettualismo era un ostacolo alla prassi, e dunque tutta la cultura doveva essere votata all’azione. Se i fascisti credevano si potesse agire a prescindere dalle idee, dall’altra parte capirono che si poteva agire rendendo le idee delle istruzioni per l’uso della politica. In mezzo chi c’era? Per esempio Giulio Giorello, che praticava la filosofia nel senso anglosassone, e sette-ottocentesco del termine, tenendo insieme la difesa delle libertà individuali e, per esempio, Leibniz e il calcolo infinitesimale (si legga l’eccezionale Lo spettro e il libertino: teologia, matematica, libero pensiero, Mondadori 1985).

Questa terza via è stata pressoché abbandonata. Le commistioni disciplinari sono diventate l’occasione per cercare nella scienza, e soprattutto nelle scienze particolari (l’etologia, l’antropologia, eccetera) una giustificazione per pretendere di cambiare il mondo, cosa che comunque può rientrare in un’idea larga di attività scientifica (il padre della cibernetica, Norbert Wiener, in fondo credeva che la scienza dovesse ragionare sull’ “uso umano degli esseri umani”); scenario, tuttavia, che ha reso la scienza molto più filosofica di quanto non sia (e al filosofia non più scientifica, ma più retorica, poiché fa uso spropositato del linguaggio scientifico per parlare di altro). In un articolo del Scientific American di qualche anno fa si leggeva di come la cultura post-kuhniana (Kuhn è stato uno storico della scienza sostenitore, per semplificare, della natura “culturale” dell’impresa scientifica; concetto che è stato esteso, estremizzato e corrotto da molti studiosi, non di scienza, successivi) avesse spinto verso varie forme di negazionismo scientifico politicamente rilevante. I no vax sono un esempio trasversale di questa deriva, poiché durante il covid fu un evento che toccò tutti, sia a destra che a sinistra (da, per dire, Giorgio Agamben a Donald Trump). In un certo senso questa è la sparizione della “cara vecchia cultura” (peraltro considerata, in varie forme, come nel razionalismo classico o nell’empirismo, colonialista, bianca, eurocentrica e così via).

E arriviamo a Marina Berlusconi, che in un’intervista per il Corriere annuncia l’uscita di tre nuovi libri per la Berlusconi editore, saggi che in un certo senso dovrebbero metterci in guardia dal potere politico delle grandi multinazionali tecnologiche, dal profetizzato “illuminismo oscuro” o, semplicemente, dalla distopia tecnologica. Un mondo basato su una giurisprudenza fatta non di leggi ma di algoritmi, che già Julian Assange aveva preconizzato in varie discussioni dall’esilio, quando parlava di chi avrebbe governato, in futuro, il mondo (le persone capaci di manipolare le leggi fisiche dell’informatica, cioè i codici). C’è un modo per proteggersi da tutto questo. Ce ne sono tanti, in realtà. Per gli anarco-primitivisti, coloro che sostengono il ritorno a uno “stato di natura”, senza tecnologia e industrializzazione, la lotta deve essere a favore del crollo dell’attuale sistema consumistico e tecnologico. Un altro punto di vista è la critica ai monopoli tecnologici, cioè l’idea che la tecnologia non sia un male in sé; il problema è semmai l’accentramento del potere nelle mani di pochi Elon Musk. Poi c’è chi ritiene, invece, che il problema sia il sistema sopra il quale si sviluppa la tecnologia, e cioè il capitalismo (questa è la versione considerata profonda della seconda critica di cui abbiamo parlato: il monopolio è un prodotto del capitalismo). C’è anche chi ritiene che il problema sia il rapporto tossico tra grande capitale e Stato: questo è il cosiddetto crony capitalism, cioè un capitalismo non duro e puro, ma corrotto perché basato sulle relazioni tra politica ed economia. Elon Musk è in effetti un esempio perfetto di questa forma depravata di capitalismo, si pensi alla sua amicizia con Trump.

Torniamo per un attimo al discorso iniziale, riguardo a un'ipotetica “terza via” culturale, opposta sia al fascismo che alle nuove forme di socialismo. Questa terza via ha un nome? In effetti sì, è il liberalismo. Liberalismo vuol dire, secondo una definizione abbastanza elementare (ma non per questo priva di criticità), ciò che Marina Berlusconi dichiara verso la metà della lettera inviata al Corriere: “Ben venga, dunque, il Digital Package varato dall’UE tra il 2016 e il 2024 a tutela degli utenti delle piattaforme. Per Donald Trump va smantellato, perché è un ostacolo: in teoria al progresso, più realisticamente al profitto, che, sia ben chiaro, è fondamentale: da imprenditore non sarò certo io a negarlo. Ma sono anche convinta che un mercato sia veramente libero solo quando risponde a regole. Non troppe e soprattutto giuste – in questo l’Europa spesso inciampa. Mi auguro davvero che sul digitale la Commissione non indietreggi, anche - e forse soprattutto - alla luce dell'enorme capacità di influenza culturale nelle mani di BigTech. Non è più solo un problema degli editori, riguarda tutti”. Non significa libero mercato con dei limiti, ma mercato liberato dai limiti imposti dalla concorrenza sleale, dalle alleanze per affari tra poteri centrali (statali) e oligarchi (i miliardari come Musk). Significa ipotizzare un futuro in cui si possa sostenere il diritto al profitto, all’impresa, alla libertà, senza trasformarsi nella Russia putiniana (appunto potere politico + interesse degli oligarchi). Significa porre un limite al processo che sta spingendo anche le democrazie occidentali, come spiega la giornalista Anne Applebaum, verso il modello delle autocrazie.

Marina Berlusconi, da un punto di vista editoriale, rappresenta alla perfezione questa terza via, più povera oggi di ieri di veri intellettuali liberali. Una nota terminologica: il termine liberale è diverso sia dal termine neoliberale (o neoliberista) sia dal termine inglese liberal, sostanzialmente ciò che noi intendiamo con “progressista” (o “di sinistra” non marxista). La distinzione è fondamentale. Il liberalismo è una filosofia della libertà, non un modello politico-economico (neoliberalismo/neoliberismo) né una corrente politica in senso stretto. Uno dei motivi per cui i partiti liberali non hanno grande fortuna è proprio questo, visto che il liberalismo si presta pochissimo a trasformarsi in una specifica dottrina politica. Ci sono liberali di destra e di sinistra, cioè con inclinazioni verso il conservatorismo o verso il pluralismo. Ci sono liberali radicali, i libertari, che ritengono che lo Stato non dovrebbe esistere, e ci sono i miniarchici, che ritengono che un po’ di Stato debba, in fondo, esistere (questi sono quelli più vicini all’idea classica di liberalismo e Marina Berlusconi sembra vicina a loro). Il suo catalogo vola alto, ma non ricerca la complessità fine a se stesso, titoli catchy e pop-filosofia. Ha pubblicato autori russi critici verso Putin (e Trump), come Alexander Baunov, e una trilogia corposissima di una storica americana, Deirdre Nansen, a favore della classe borghese, cioè la più infangata nel corso dell’ultimo secolo di letteratura filosofica. Ha pubblicato le lettere inglesi di Voltaire e un saggio sul comunismo novecentesco di François Furet (888 pagine).

Viviamo in un’epoca in cui fascismo, patrimonialismo e monarchie tecnologiche (perché, come ricorda Marina Berlusconi, i padroni della Silicon Valley restano per tutta la vita sul trono) sono un tutt'uno, un enorme progetto politico che riesce ad assorbire tutto, persino le critiche, grazie all’enorme asimmetria tra il potere dei potenti, anche tecnologico, e il potere dei cittadini, che è quasi nullo. Ed è proprio in questo clima che si dovrebbe puntare su quelle isole, o arcipelaghi, che sopravvivono, quasi in regime di autogoverno, allo tsunami ideologico che sta investendo il cosiddetto “mondo libero” (cioè l’Occidente). Isole fatte di cultura solida, ben fondata, razionale, di destra e di sinistra, che può riportare sul piano del discorso comune il senso della democrazia, del pluralismo, della discussione, senza le solite distorsioni estremiste. Un’isola che possiamo immaginarci piena di casette di legno per il book crossing, la pratica di lasciare dei libri in spazi pubblici così che altri possano prenderli gratuitamente in modo che le idee circolino. E in Italia possiamo immaginarla, per fortuna, piena anche dei libri della Silvio Berlusconi editore.
