Cosa vuol dire essere Willie Peyote? Ecco, in una notte a Roma, nella sala del Teatro Olimpico dentro “Willie Peyote - Elegia Sabauda”, forse una mezza risposta l’abbiamo trovata. Scena dopo scena, nel film di Enrico Bisi, abbiamo visto Willie mentre si agita in stadio durante la partita del Toro, sta per salire su un palco, ripensa a chi era Guglielmo anni fa. E poi Torino, la casa, la famiglia, il linguaggio politico e sociale, la vita e in mezzo la musica. La musica dentro ogni cosa. Educazione Sabauda, Iodegradabile, Pornostalgia. Difficile, forse, riassumere gran parte della sua carriera, intenso di sicuro. Chissà registrarlo. Filmare una crescita, i cambiamenti, le canzoni che arrivano. Grazie al documentario abbiamo compreso alcune cose. Che Sanremo deve essere tosta e trasformare i pensieri che s’attorcigliano nella testa in canzoni, pure. E che quella “vita senza mai domande” forse è davvero impossibile. Perché alla fine le domande arrivano, di continuo. Anche le nostre a Enrico Bisi e Willie Peyote, che sono passati nel nostro spazio MOW da MBU proprio per raccontarci il loro film. “Io avevo voglia di raccontare Willie artista, Guglielmo persona, quindi mi piaceva l’idea di restituire al pubblico alcune cose che evidentemente non possono essere percepite dalle sue canzoni, dal suo stare in pubblico. Quindi ho cercato di raccontare alcuni aspetti che magari la gente non conosce, non si aspetta, spero. Questo film è nato da una mia esigenza personale e ho chiesto lui l’autorizzazione di poterlo fare anche se era titubante.” E il rapper ha subito precisato, ridendo: “Lo sono tuttora”.

Guglielmo/Willie il presente l’ha sempre tenuto davanti agli occhi. Quello che succede fuori dalla finestra. L’etica, la società, gli altri. Canzoni, le sue, che sembrano un po’ rispondere a quella domanda, Chi sei davvero quando nessuno ti vede? Tante robe diverse, una sola vita, ma la complessità di guardarle tutte, le nostre vite. E poi i sentimenti, l’angoscia, i legami. Ma in un’epoca in cui tutto non si dilata, anzi s'addensa in piccoli schermi, noi annichiliti, collegati, stanchi, forse appiattiti dalle solite modalità, operazioni, schemi con cui conoscere e guardare questo mondo, quanto è importante per un artista staccare, trovare del tempo per se stesso e soprattutto restar fedele a ciò che si è? “Restare fedele a me stesso è un po’ il centro di tutto. L’idea della coerenza c’è e c’è stata. Ci lavoro costantemente, quindi spero si possa anche percepire. Sicuramente quello per me è un obiettivo. Sul prendersi del tempo per sé, secondo me serve per scrivere in generale, ma a me piace talmente tanto il mio lavoro che non ne sento il bisogno. Delle parti del documentario raccontano dell'ultimo disco in studio e quei momenti mi piacciono al punto che non ho bisogno di una vacanza. Ogni tanto serve staccarsi per pensare a cosa scrivere, perché standoci sempre dentro poi vedi il mondo un po’ stretto, quindi serve allargare un po’ il campo, però non ho bisogno di prendere dei momenti per me stesso. Passo molto tempo da solo in realtà nella vita, quindi non ne ho bisogno di tempo ulteriore, mi piace invece condividerlo, quindi io dal mio lavoro non ho bisogno di prendere una vacanza sinceramente”.

