Fare la punta al caz*o è una figura retorica. Dovessi al volo dire quale, lo confesso, non saprei cosa rispondere. Perché non è una metafora, e anche se ho pure fatto una ricerca volante in rete, non riesco proprio a ricordarmi come si chiami. Il senso credo sia evidente e chiaro: fare la punta al caz*o significa pignoleggiare in maniera fastidiosa e inutile, per cui va bene così, fare la punta al caz*o. Ecco, volendo fare la punta al caz*o va detto che questa faccenda dell’ironia, almeno per quanti di noi, noi che scriviamo, cioè nel caso specifico io, e noi che leggiamo, nel caso specifico voi, specie quella porzione di noi che è nata nel Novecento, non può che essere legata a doppio filo al postmodernismo, e nello specifico a quel magnifico esemplare di postmodernismo che risponde al nome di David Foster Wallace. La faccenda è nota, di fronte all’evidente e imminente crollo del capitalismo, e di conseguenza al suicidio in stile Lemmings di quell’ottimismo che il capitalismo aveva spinto a crescere esponenzialmente, un’ipotesi di futuro finalmente lì a portata di mano, dopo le brutture delle guerre mondiali. Ecco, insomma, preso atto che quello che ci avevano e ci eravamo raccontati era tutta una cazzata, il solo modo per andare avanti era sembrato riderci su, ironizzare, e nell’ironizzare smontare tutto, a partire dalla realtà. Sto tagliando con la falce, ovviamente, non siamo in una lezione di letteratura del Novecento, del resto. Di colpo i postmoderni o postmodernisti che dir si voglia hanno iniziato a mettere tutto alla berlina, mescolando alto e basso, e prendendosi gioco del reale. Giocando ovviamente con lo stile e con gli artifici letterali, arrivando quindi in quella porzione del Novecento che volgeva verso il nuovo millennio. Una vera girandola di idee, una specie di pacchia continua, per noi lettori, mai così tanto esposti a quelli che potremmo serenamente chiamare effetti speciali. Dalla metanarrativa di John Barth al memoir e l’autofiction, roba che oggi è diventata mercato, tutto era una specie di giostra nella quale si poteva salire semplicemente aprendo un libro. Poi lui, David Foster Wallace, uno dei più grandi scrittori del Novecento e oltre, direbbe Buzz Lightyear, dopo aver a lungo praticato l’ironia ha deciso di lanciare, certamente alla sua maniera, un grido dall’allarme, scrivendo quel saggio intitolato E unibus pluram che credo sia stato il testo più travisato della recente storia della letteratura. Era un testo, lo è tuttora, come tuttora David Foster Wallace, morto per sua stessa mano nel 2008, è uno dei più grandi scrittori contemporanei, era un testo nel quale il nostro provava a sottolinare come l’ironia potesse essere una trappola, per dirla alla Monicelli, per cui a essere una trappola era invece la speranza, perché quel distacco verso il reale che il postmodernismo aveva espresso con l’ironia rischiava di renderci cinicamente distanti da tutto, spettatori laddove dovremmo provare a essere protagonisti. L’essere travisato, cui facevo riferimento poc’anzi, si è manifestato in una sorta di caccia alle streghe nei confronti dell’ironia tout-court e di chi l’ironia usava, puntando tutto su un ritorno opprimente al reale, come se davvero essere ironici non ci permettesse di guardare all’oggi con attenzione. Se l’ironia, per dirla con lo scrittore americano, partita come atto demolitore dell’ipocrisia imperante riguardo al futuro e al futuro che il capitalismo ci aveva lasciato sperare, era diventata “la voce che cerca di convincere il carcerato che la gabbia nella quale è rinchiuso è bella”, ecco, l’alternativa è stata assai opprimente, perché rimaneva solo la gabbia (qui ne parlo comunque più diffusamente).
![Willie Peyote](https://crm-img.stcrm.it/images/42337069/2000x/20250207-115645121-6331.jpg)
Tutto questo per dire che chi sembra essersi distratto nella lettura di "E unibus pluram", o non averlo letto affatto, o magari averlo letto e essersene sbattute il cazzo è Willie Peyote, che quindi approda per la seconda volta in carriera al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, la prima è stata l’anno orribilis 2021, con una canzone, "Grazie ma no grazie" che è al tempo stesso la più ironica in gara, ma anche la sola che abbia appigli con la contemporaneità, per intendersi, la sola che contraddica Carlo Conti quando dice che nessuno gli ha mandato canzoni che guardassero a quel che sta capitando in Italia e nel mondo oggi. Andava detto, lo so, anche se è un po’ fare la punta al caz*o, so anche questo. Incontrare un cantante in gara a Sanremo a una settimana dell’inizio è un’esperienza straniante, perché si ha l’impressione di essere una rottura incommensurabile di palle, e perché, comunque, parlando tocca stare comunque attenti a non chiedere quelle medesime cose che poi ti toccherà chiedergli quando passerà a trovarti lì dove fai le interviste, nel nostro specifico a Villa Ormond, dentro il contesto del Villaggio del Festival, lì dove io e mia figlia Lucia incontreremo per MOW tutti gli artisti in gara, o almeno tutti quelli che ci interessa incontrare, Willie Peyote tra questi, ovviamente. Per questo parliamo oggi di ironia, tema che per Willie è una cifra costante, mica solo qualcosa da esibire all’Ariston, e anche di postmodernismo, a rischio di apparire spocchiosi e pretenziosi, parlo per me che tiro fuori l’argomento, del resto non è che uno si ritrova a essere un intellettuale per caso, credo, a voi stabilire se stia parlando di entrambi, di Willie soltanto o soltanto di me stesso.
Per lui, Willie Peyote da Torino, l’ironia è fondamentale per far passare messaggi che in assenza di ironia potrebbero risultare pesanti, come appunto nel testo del brano in gara, dove parla, tra l’altro, di questo clima oscurantista, tipico di quando al governo c’è la destra, che vuole non solo l’uso di manganelli, citati esplicitamente nelle barre, ma anche la contrapposizione tra l’uso degli stessi e il aver voglia di fare un cazzo, forse altrettanto odiosa. Come dire, prendi manganellate perché stai lì a protestare non tanto perché ci credi, ma per passare il tempo. Cosa che per altro è in effetti una delle cifre della contemporaneità, la parola cifra, giuro, non la userò più da qui in avanti, come quando si dice che gli scioperi si fanno il venerdì perché chi sciopera vuole fare il weekend lungo, non perché vuole rivendicare i propri diritti. Conseguenza, azzarda, della fine del concetto di classe, parlarne oggi sembra quasi voler essere vintage, e chiaramente quando scompaiono le classi a guadagnarci sono solo i padroni, è evidente. Un’intervista anomala, parlando di Sanremo, il luogo per antonomasia dell’effimero. Anche di questo abbiamo parlato, di come sia stato buffo vedere la sorpresa di molti per la scomparsa delle canzoni impegnate al Festival, annunciata da Carlo Conti, perché il Festival non è certo luogo storico dell’impegno. Semmai della leggerezza, questo sì, e anche un po’ di certa ipocrisia, e per questo abbiamo parlato anche di quel che è successo fuori dal contesto già di suo anomalo dell’Ariston, era il Sanremo del Covid, ricorderete certo la platea vuota, i palloncini con su dipinti degli elementari volti, gli sforzi di Amadeus per tenere in piedi la baracca , Sanremo poi vinto dai Maneskin. Sanremo che lo ha visto tornare a casa con un prestigioso Premio della Critica in valigia, quando per passare il tempo in stanza d’albergo Willie si è dato da fare su Twitch con una serie di dirette dirompenti, in compagnia di due compari, nelle quali non ha lesinato critiche anche durissime a alcuni colleghi in gara, su tutti Francesco Renga e Ermal Meta. Entrambi, incidentalmente, presenti a Sanremo anche quest’anno, il primo a duettare sulla sua "Angelo" coi Modà, il secondo a animare il palco di Piazza Colombo. Una operazione assolutamente politicamente scorretta, un cantante che non fa cartello coi colleghi, peggio, che li percula apertamente in video, un giullare che ridendo dice che il re è nudo. Del resto nel brano "Mai dire mai (la locura") Willie Peyote perculava sia Bugo e Morgan per il momento iconico andato in scena nel Sanremo precedente, sia Elettra Lamborghini e il suo rivendicare una lotta al patriarcato attraverso il twerking, volendo anche lo stesso Festival, con quella citazione iniziale a Boris e all’Italia del futuro, un paese di musichette mentre fuori c’è la morte. Mantra valido ieri come oggi. Se non è postmodernismo reale questo. Una attività ludica che, dice Willie, tornando indietro non ripeterebbe, perché va bene abbattere il muro dell’ipocrisia, ma forse andrebbe fatto in altri contesti, quindi laddove l’ipocrisia non è così calcificata, e anche laddove la gente sapesse già prima cos’era Twitch. Quindi, par di capire, quest’anno questa cosa ce la perderemo, e lo dico con rimpianto, ma sicuramente ci gusteremo un gran momento nella sera dei duetti, con il nostro a confrontarsi con Federico Zampaglione dei Tiromancino e Ditonellapiaga su "Un tempo piccolo" di Franco Califano, brano di cui Zampaglione è coautore. Ricorderete la sua versione di venti anni fa. Canzone scelta da Willie perché tra le sue preferite di sempre, anche per quel citare la vodka, dice, e portata su quel palco con due artisti romani perché amici, certamente, e stimati, altrettanto certamente, ma anche proprio per il loro essere conterranei di Califano, mentre quasi tutti gli altri hanno fatto pezzi della propria città. La cover non sarà parte dei quattro inediti, uno è appunto il brano in gara, "Grazie ma no grazie", presenti nell’edizione di "Sulla riva del fiume", inizialmente uscito mesi fa in versione digitale, dodici tracce in tutto. Un album che, dice Willie, è quello tra i suoi che di più lo soddisfa, e che contiene un repertorio variegato, musicalmente, come variegato saranno anche i quattro brani nuovi. Musica suonata, cantautorato e rap che flirtano tra loro, come sua abitudine. Cantautorato e rap presente a Sanremo, seppur i cantautori, gli ho detto, fanno i cantautori, i brani suoi, di Gabbani, di Brunori Sas, di Simone Cristicchi e di Lucio Corsi suonano esattamente come brani suoi, di Gabbani, di Brunori Sas, di Simone Cristicchi e di Lucio Corsi. Mentre i rapper, ho aggiunto, per buona parte suonano come canzoni pop, fatto che per lui da una parte è figlia di un preconcetto degli italiani di fronte al rap, genere che ha sì cinquant’anni, ma da noi viene sempre visto come nuovo, dall’altra è una conseguenza del grande successo di Cenere di Lazza, che ha indotto i rapper a pensare che spostandosi sul pop ci sono più chance di piacere a un pubblico mainstream. Del resto oggi c’è solo il mainstream, abbiamo concluso, mancano gli altri generi, seppur guardando ai più giovani un barlume di speranza rimane. Un fatto che forse andrebbe sottolineato è come Shablo, portando un brano suo con i feat di tre artisti, Guè, Tormento e Joshua, ufficialmente non in gara, questi ultimi tre, ha aperto una strada fin qui mai battuta, presumibilmente seguita da altri producers nei prossimi Festival. Ultime battute dedicate ancora una volta a faccende appena accadute che non sono state sottolineate abbastanza, cioè che Kendrick Lamar abbia appena vinto un Grammy con un brano che è un dissing feroce nei confronti di Drake, nel quale gli si dice che è un pedofilo, che picchia la moglie, robe tremende. Una spettacolarizzazione del privato nel quale gli americani sono campioni assoluti, gli citavo a riguardo "The Apprentice" che fa il medesimo gioco su Trump, e anche qui, non è stato sottolineato a sufficienza come all’insediamento di Trump fossero presenti quasi solo potenze economiche, e non rappresentanti di governo, otto degli uomini più ricchi del mondo sul palco nel quale a gigioneggiato Elon Musk. Da noi, riguardo ai dissing, c’è solo la pruriginosità del parlarne, e il fatto che in gara ci siano Fedez e Tony Effe, che non si disseranno ma richiamano al noto scazzo dei mesi scorsi è la massima concessione possibile a questo ambito, ho aggiunto. Insomma, tanta roba, forse anche troppa parlando di Sanremo, ma Willie Peyote è Willie Peyote, e quando hai di fronte un interlocutore che argomenta perché non dovresti argomentare?
Certo, a Sanremo in genere si parla solo di Sanremo, e raramente sentirete parlare di classi sociali, di poveri che se la prendono coi poveri invece che coi padroni, di posmodernismo e rischi del mettere in pratica l’ironia, di come la potenza economica abbia definitivamente spodestato la politica e tutto il resto. Quest’anno si torna a cantare d’amore e di famiglia, ha detto Carlo Conti, e in effetti così è, far notare che in fondo è così da settantacinque anni è un po’ come fare la punta al caz*o, grazie, ma no grazie.
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