C’era una volta l’ironia. No, attenzione, non siate superficiali. Non c’è sempre stata l’ironia, o almeno non era accessibile a tutti. Toccava saperla praticare, e toccava, per chi volesse praticarla, prendersi la responsabilità di farlo, con tutti i rischi del caso, i fraintendimenti, il disagio, le perplessità. Poi, a un certo punto, l’ironia si è diffusa, propagata, ha anche dilagato, come succede a quel che, dal basso, diventa di moda, il mercato spettatore immobile, pronto però a metterci sopra il cappello.
Del resto toccava mettere una pezza a quel che stava succedendo intorno, il crollo di quella speranza incondizionata per il futuro che era figlio del capitalismo, del progresso. Ci avevano raccontato, avevano raccontato a chi c’era prima di noi, a dirla tutta, che tutto sarebbe andato bene, che saremmo stati felici, ma qualcosa si è inceppato, una crepa ha attraversato il quadro. Quindi, orfani di un futuro, gli intellettuali, una parte degli intellettuali, hanno cominciato a riderci su, non tanto per tenere alto il morale, ma per mostrare il re nudo a chi ancora era convinto che ci fosse un re. Per farlo, per dimostrare cioè che la modernità era stata in fondo un grande inganno ideato ai nostri danni, dove quel noi rappresenta l’umanità o quella porzione di umanità che nel moderno ha creduto, gli occidentali, il post-modernismo, questo il nome scelto da questo movimento di intellettuali, ha iniziato a mischiare alto e basso, elevando i canoni della società dei consumi, quindi la riproducibilità su larga scala tipica del mercato, a forma d’arte, è proprio la società dei consumi la prima a essere colpita dagli strali di questo manipolo di intellettuali, l’ironia e anche un po’ di cinismo, sempre che le due cose siano scindibili, a disinnescare il tutto, o a innescare la bomba che avrebbe dovuto farne tabula rasa.
Per dirla con David Foster Wallace, nome che non ricorre mica a caso qui e ora, il modo che è stato ritenuto migliore per smascherare l’ipocrisia di questo sistema che ci ha raccontato frottole, questo DFW non l’ha detto così, mica per niente è uno dei migliori scrittori del Novecento, per mostrarci quindi quanto la realtà fosse nei fatti sgradevole, niente è parso migliore dell’ironia, del paradosso, del sarcasmo, della parodia. Però, a un certo punto, questo ci ha raccontato appunto David Foster Wallace, una volta che l’arte è riuscita in questo intento, hanno cioè fatto cadere il velo, cosa rimane? L’ironia, questo il punto, è diventata fine a se stessa, pura maniera, citazione di se stessa, il postmodernismo la sua chiesa, qualcosa che voleva far saltare il sistema e che è diventata lingua ufficiale del medesimo sistema (a un certo punto del saggio che DFW ha dedicato all’ironia, E unibus pluram: gli scrittori americani e la televisione, contenuto nella raccolta di saggi Tennis, tv, trigonometria, tornato, libro del 1997 che contiene anche questo scritto del 1993, citando Lewis Hyde DFW parla di una lingua che era nata come emergenza, l’ironia, ma che era finita per diventare la voce che cerca di convincere il carcerato che la gabbia nella quale è rinchiuso è bella, e direi che altro non ci sarebbe da aggiungere).
La reazione a questo dilagare dell’ironia, e quindi del postmodernismo, è stato l’ipermodernismo, con un deciso abbandono delle istanze ironiche, un vero e proprio divieto categorico, non perché nel mentre le certezze e i valori sul cui fallimento il post-moderno aveva edificato un immaginario fossero stati riparati, tutt’altro, credo si tratti di ferite incurabili, quanto piuttosto perché di colpo sembra che la parola d’ordine sia diventata realismo.
Sì, l’ipermodernismo, erede parricida del postmodernismo, stabilisce che la commistione tra alto e basso tipica di quest’ultimo, la verità posta costantemente in crisi da un manierismo forse divenuto fine a se stesso, dall’autoreferenzialità portata agli estremi, da un disincanto che trova sfogo più bel paradosso che nella malinconia, con buona pace di quanto di buono l’ultimo lacerto del Novecento ci ha regalato, nell’arte tutta, indicando in un moralismo strettamente legato al reale. Solo che quello che l’ipermodernismo si trova a affrontare e quindi a raccontare è un reale spezzettato, narrativamente, dall’ingresso in scena della rete e soprattutto dei social, la soglia di attenzione che si abbassa, la società che si analfabetizza, letteralmente e disfunzionalmente, tutto che diventa come evaporato (alla faccia di Bauman).
Preso atto che l’ipermodernismo non è affatto una pacificazione con la modernità che il postmodernismo negava, tocca ammettere che, se possibile, il grado di paranoia presente oggi è ancora più alto di quello messo in scena allora, come dire: si fanno i conti con quella realtà che i postmoderni schernivano, ma è un fare i conti con una realtà filtrata e anche depotenziata dai media, quindi a grande rischio di credibilità.
Quindi in un florilegio di memoir, autofiction, biografie e autobiografie, figlie certo di quella destrutturazione dei generi che proprio con il postmodernismo è esplosa, ma dove lo stile, il significante, era spesso il significato stesso, quindi il messaggio, la realtà sembrerebbe essere tornata dannatamente di moda, sembrava tornata dannatamente di moda. Perché proprio quella rete e quei social che hanno contribuito a spezzettare ogni possibilità di discorso, frammentare e evaporare la rappresentazione in potenza della realtà, ha reintrodotto di forza il concetto di ironia, e lo ha fatto rendendola viralizzata e viralizzabile, onnipresente, come tutto il resto velocissima e capace di sotterrare la realtà senza fare nessuna fatica. Lo ha fatto coi meme, simpatici, certo, condivisibili, nel contenuto come nella modalità, veicolo però di una ironia assolutamente di sistema, un jingle rap o rock, cioè costruito su quei canoni, che però ha il solo scopo di rendere più accattivante un prodotto (il che, visto l’utilizzo che dell’ironia si faceva anche solo alla fine del Novecento, è davvero qualcosa di incredibile). Tutto è divenuto oggetto di meme, da fatti buffi di loro, quindi con nulla da disinnescare, a argomenti che, trattati a quel modo, finiscono per venir rivalutati, in questa corsa al prendere posizione pro o contro qualsiasi argomento che ogni mattina ci chiede di schierarci, spesso arrivando a un triplo spostamento della massa, contro-pro-contro o pro-contro-pro. In epoca di politicamente corretto e cancel culture è il meme la terra di nessuno nella quale non vigono regole ferree, se non quelle di passare una mano di smalto cafone su tutto, buttarla in caciara, strappare un sorriso che ci distragga, alla faccia del reale.
A questo punto verrebbe quasi da chiedersi se, “citazione”, o meglio “citazione ultrapop, basso che tende a farsi alto per l’uso che chi scrive decide di mettere in pratica”, è questo il futuro che sognavo da bambino? Perché confrontando l’ironia e il cinismo postmoderno e quello leggero e vuoto dei meme, ultima deriva della frammentazione ipermodernista, forse, non possiamo che giungere alla conclusione di aver preso una bella sòla, scambiato un vecchio campione che aveva comunque ancora molto da dire con una giovane promessa che si è rotta i legamenti già dopo due giornate di campionato. David Foster Wallace riposa in pace.