C’è una vena tragica (o, per alcuni, tragicomica) nell’odissea di Andrea Giambruno, giornalista Mediaset ed ex (?) compagno della premier Giorgia Meloni. A delineare quello che percepisce come un dramma è Vittorio Feltri, che con il suo inconfondibile stile pungente e viscerale non solo offre uno spaccato della vicenda personale, ma dipinge anche un quadro più ampio, emblema dei nostri tempi. Per Feltri, Giambruno (tornato almeno momentaneamente in tv via intervista a Dritto e Rovescio con Paolo Del Debbio) sarebbe vittima di un “inferno” mediatico e sociale: una crocifissione pubblica scaturita da qualche battuta infelice, pronunciata in un contesto goliardico, secondo il direttore un semplice riflesso di quel cameratismo sgangherato che impregna certi ambienti di lavoro.
Feltri si spinge oltre, arrivando a definire Giambruno un “martire” di quella che descrive come un’ideologia “cieca, sorda, malata, cannibalesca”, un femminismo degenerato e di guerra, che, partito dal giusto desiderio di uguaglianza, avrebbe virato verso una vera e propria “guerra al maschio”. Non si tratterebbe più di denunciare comportamenti sessisti reali, ma di colpire in modo indiscriminato, costruendo accuse su dettagli decontestualizzati, finendo così per dipingere ogni uomo come un potenziale mostro. “Giambruno è stato fatto fuori professionalmente”, scrive Feltri, “scaricato pubblicamente dalla compagna, che, per tutelare la propria immagine, ha ritenuto necessario fornire alcuni chiarimenti sulla sua vita privata, cercando così di arginare i danni, lo tsunami che Striscia aveva scatenato e che, in effetti, scatenò”.
In questa narrazione, Giambruno emerge come l'archetipo del capro espiatorio, e Feltri lamenta quello che definisce un “pregiudizio ancestrale”: l’essere maschio, e, peggio ancora, maschio di destra, sembra automaticamente implicare colpevolezza. “Siamo oltre la malagiustizia”, grida l’autore, “siamo al pregiudizio di genere”. Il maschio bianco, insiste Feltri, non è più giudicato per quello che ha fatto, ma per ciò che rappresenta, in un contesto culturale che lo stigmatizza senza appello.
Feltri, a modo suo, ci sollecita a riflettere sulla sottile, spesso invisibile linea che separa giustizia e persecuzione. Bastano “uno spezzone di un fuorionda”, una parola estrapolata dal contesto, o semplicemente il dito puntato di una donna per “condannare un uomo senza neppure un’indagine o un processo”. La questione, secondo lui, non è soltanto individuale, ma sistemica. È un sintomo di una società che, invece di superare le sue disuguaglianze, sta radicalizzando i pregiudizi, diventando sempre più intollerante.
Se, da un lato, la prospettiva di Feltri può risultare per certi aspetti esasperata, non si può negare che vicende come quella di Giambruno pongano interrogativi più ampi. È possibile conciliare la lotta contro il sessismo, qualora effettivamente ci sia e rappresenti un effettivo problema di discriminazione, con il rispetto per la dignità delle persone coinvolte? E quanto spazio resta, in un dibattito sempre più polarizzato, per distinguere tra errori, leggerezze e difetti di carattere da colpe e reati? Forse, come suggerisce Feltri, occorrerebbe ritrovare una lucidità analitica, sottraendosi alle lusinghe di un’ideologia estremista e alla tentazione di etichette facili e condanne sommarie. Ma, nel clima attuale e con quello che si profila all'orizzonte, possiamo ancora sperare che ciò accada? E soprattutto, qualcuno ha davvero voglia di provarci?