“Non una di meno”. “Se sono io la prossima, voglio essere l’ultima”. Ancora, manifestazioni e cortei. Il 25 di novembre era solo qualche giorno fa. Eppure, dopo striscioni e slogan, soltanto nella giornata di ieri sono stati due i femminicidi. E due sono stati gli arresti in flagranza per il reato di maltrattamenti in famiglia a Reggio Calabria. Uno di questi, attuato proprio lo scorso sabato, è stato reso possibile grazie a tre bambine che hanno sottratto la loro madre dalle grinfie del marito. Dalla strada gli agenti della polizia, che erano già stati avvertiti telefonicamente, hanno notato sul balcone tre bimbe di dodici, dieci e otto anni, che urlavano: “Venite, venite, siamo qui”. Ed una di loro esibiva un foglio bianco con scritto “Help”. L’uomo, che già era stato raggiunto da una misura di divieto di avvicinamento, pronunciava frasi sconclusionate mentre riversava in evidente stato di alterazione tutta la sua furia sulla moglie. Ad allertare le forze dell’ordine era stata la figlia più piccola della coppia che – vedendo la mamma in difficoltà – ha fatto il 113 sul cellulare e l’ha poggiato all’orecchio della madre perché chiedesse aiuto. Una storia agghiacciante, nella quale la vittima non è solamente l’ennesima donna di turno. Ma andiamo per gradi.
Il copione è sempre lo stesso. Donne uccise e maltrattate in quanto donne da maschi che se ne fregano di tutto. Anche di Filippo Turetta e Giulia Cecchettin. Casi che ci avvicinano al Kazakhstan, dove nelle ultime ore l'ex ministro dell’Economia, Kuandyk Bishimbayev, ha ucciso la moglie Saltanat Nukenova e in centinaia di migliaia di donne sono scese in piazza. Un femminicidio della 31enne, consumatosi in un ristorante di Astana con il conseguente tentativo di sviare le indagini da parte del politico, che ha indignato il Paese che ora chiede una legge che criminalizzi le violenze domestiche. In Italia invece si riparte da Salsomaggiore Terme dove ieri un “uomo” ha ucciso in strada la moglie con una mazza da cricket. Meena Kumari, di sessant’anni e con origini indiane, è morta sul posto. La donna dopo una prima aggressione avvenuta all’interno della propria abitazione è scappata in strada per chiedere aiuto. Ma per lei non c’è stato niente da fare perché il marito è riuscito a finirla a colpi di mazza. Poi è stata la volta di Andria. Dove un uomo di quarantasette anni ha ucciso la moglie davanti ai figli e ha chiamato il 118: “L’ho accoltellata, venite”. In sottofondo, ancora le urla dei bambini minorenni che hanno assistito alla mattanza. Minori che, così, finiscono inesorabilmente per essere incamerati nella categoria dei cosiddetti orfani speciali. Quei bambini che hanno perso entrambi i genitori: per il femminicidio e per la successiva e conseguente carcerazione del genitore sopravvissuto. Ed assassino. Dopo la terribile storia di Giulia Cecchettin, dunque, le cose sembrano addirittura peggiorare. Questo perché fino a quando continueremo a considerare i femminicidi come episodi emergenziali le cose non cambieranno. Il problema, che vi piaccia o meno, è di tipo strutturale. Ragion per cui bisogna agire in chiave preventiva. Prevenire è meglio che curare. E non è affatto retorica. La violenza contro le donne, fondata sugli stereotipi di genere, deve essere sconfitta dall’interno. Come un qualsiasi morbo letale. Se non si eliminano a monte le cause, continueremo a curare i sintomi. E spesso neppure quelle.
Ben vengano le modifiche introdotte dalla legge Roccella. Sia per quel quel che riguarda i tempi più rapidi della giustizia sia per quanto riguarda l’apertura delle porte del carcere in caso di manomissione del braccialetto elettronico. Ma il problema è che quando si arriva a discutere delle misure cautelari è già troppo tardi. Perché anzitutto significa che il soggetto che le mette in campo ha già avuto comportamenti aggressivi. E poi va a finire come ieri ad Andria. In secondo luogo, perché contro questa tipologia di soggetti l’unica misura veramente efficace è il carcere. Il dramma delle bambine di Reggio Calabria che hanno salvato la madre dalle percosse, e quello dei bambini di Andria che hanno visto accoltellare mortalmente la loro madre, aprono un altro devastante scenario che ricade sotto il nome di violenza assistita. Quest’ultima, secondo le stime, rappresenta la seconda forma di maltrattamento infantile in famiglia. Oltre ad essere la principale modalità di trasmissione intergenerazionale della violenza. Una violenza del tutto invisibile di cui si parla poco, ma la cui lotta è fondamentale anche per il contrasto alla violenza di genere. Ciò perché un bambino che qualifica come normale il comportamento del padre che picchia e vessa la madre sarà un adulto a cui sembrerà normale macchiarsi di atti di violenza nei confronti della partner. Viceversa, una bambina che percepisce come normale elemosinare affetto o ancor peggio subire abusi sarà una bambina che svilupperà un adattamento psicologico alla violenza. Maturando così un livello di possibilità elevatissimo di essere in futuro una donna nella rete di un partner maltrattante. Quale dunque è la soluzione? Sicuramente il disegno di legge Roccella, diventato legge sulla spinta del femminicidio di Giulia Cecchettin, ha correttamente previsto l’introduzione dell’educazione sentimentale e l’educazione al rispetto nelle scuole. Così come inasprimento delle misure coercitive. Quel che mi auguro, però, è che prima o poi venga resa obbligatoria - ma soprattutto attuata - la valutazione psicologica dei soggetti denunciati per i reati spia, primi tra tutti stalking e maltrattamenti. Questo tipo di attività permetterebbe infatti di valutare l’effettivo livello di pericolosità del soggetto per evitare che possano verificarsi episodi di violenza ancora maggiore. Se non si interviene subito, concretamente e su ampia scala, le parole resteranno solo parole. E il “se sono io la prossima voglio essere l’ultima” resterà solamente uno slogan acchiappa consensi. E like.