Aggirarsi per il mondo con lo sguardo sorpreso di un bambino è condizione privilegiata di chi, anche a fatica, ci mancherebbe altro, ha deciso di dedicare la propria vita alla narrazione, andando a vestire i panni di quelli che un tempo venivano chiamati con rispetto intellettuali, e che oggi vergognosamente si autodefiniscono comunicatori, non fosse altro che per fugare pericoli inverecondi quali finire nel medesimo insieme di gente quale Galli Della Loggia o Massimo Cacciari. Nei fatti ho ripreso a passare un’ora e mezzo delle mie giornate, giornate altrimenti dedicate alla lettura, all’ascolto, alla visione, e anche alla scrittura, ovvio, a camminare a passo spedito in un grande parco di Milano. Una scelta dettata dall’avere superato il cinquantaquattro, si parli di anni anagrafici o della taglia dei pantaloni. Camminare a passo spedito, immagino anche correre, più o meno velocemente, in un grande parco cittadino, parlo di Milano ma suppongo la questione sia valida anche in altre grandi città e anche in provincia, è esperienza estrema, che ci pone di fronte agli occhi, occhi certo a tratti madidi di sudore, specie se la temperatura permane quella che c’è al momento, decisamente più alta di quanto settembre dovrebbe di suo consentire, una umanità altrimenti celata dietro sovrastrutture che, diciamolo apertamente, stanno lì proprio per pudore, perché far vedere l’altrimenti invisibile non sempre è un bene.
Partiamo dal dato oggettivo che quanti vi dicono, con una punta di spacconaggine, che i parchi cittadini, di Milano e di altrove, sono pieni, specie nelle prime ore della mattina, di altri scalmanati che corrono, loro ovviamente non dicono scalmanati, figurati, scalmanati fanno footing o come lo vogliamo chiamare, beh, quanti vi dicono ciò mentono sapendo di mentire. Al secondo mese di camminate a piè veloce, prima tra metà giugno e metà luglio, prima cioè che la calura divenisse ingestibile, e ora, settembre, ho visto sempre le medesime persone, intendendo con ciò non lo stesso tipo di persone, una particolare razza di umani dediti per propria scelta o per costrizione a sudare vestiti in maniera discutibile in aree verdi dell’arredo urbano, ma nel senso che ho incrociato, giorno dopo giorno, sempre e soltanto un numero limitato e preciso di persone, che se fossi tra quanti amano socializzare magari potrei anche chiamare per nome, volendo anche salutare con un cenno mentre ci incrociamo, lì a fianco del fiume che taglia il parco in questione, so di aver descritto in maniera anche troppo riconoscibile Parco Lambro, ma che io abiti da queste parti è cosa già raccontata, vecchia, nessun segreto, fermandomici a chiacchierare mentre faccio streching, ma grazie a Dio non sono fatto in tale guisa. Mettiamola così, tra le sette e trenta e le nove e trenta, minuto più minuto meno, al Parco Lambro si aggirano una trentina di persone, sempre quelle, e non tutte per altro intente a fare attività fisica, alcune lì per far pisciare i cani. Persone che si incontrano tutti i giorni, ipotetici testimoni in caso di accuse di omicidio avvenuti in quell’orario, perché a furia di vederci ci conosciamo tutti, c’è la tizia che corre inguainata in leggins e canotte due taglie più piccole, il metallaro oversize che si ostina a correre rischiando l’enfisema, il gruppetto di tre anzianissimi che arranca a velocità di crociera che manderebbero in brodo di giuggiole l’assessore Maran, quello dei limiti sotto i 30km orari per le auto. Ci sono le ragazze solitarie, che si ostinano a girarsi impaurite se le incroci nei sentieri meno battuti, io come chiunque percorro ogni giorno il medesimo circuito, per arrivare a un totale di dieci chilometri circa, compresa la distanza per arrivare fin qui e per tornarmene poi a casa. C’è infine chi si meraviglia, io sono stato a lungo tra questi, del fatto che al Parco Lambro, che è un polmone verde di Milano affiancato per un lungo tratto dalla tangenziale, ci sia vita non umana, le nutrie, gli scoiattoli, le papere, i corvi, gli scoiattoli, le lepri selvatiche, gli aironi, i topi, sì, topi grandi come le nutrie di cui sopra, ma decisamente meno pacati nei modi. I medesimi, suppongo, non ne ho però certezza, si meravigliano del fatto che l’acqua del fiume in questione non appaia pastosa, sporca, questo nonostante l’insistente odore di trielina e solvente che detta acqua emana, specie dalle parti di dove sorge la comunità Exodus di don Mazzi, verso via Palmanova, dove a volte si vedono anche bolle in superficie non troppo diverse di quelle che si facevano da bambini soffiando dentro quel cerchietto di plastica.
Per altro, essendoci venuto più e più volte anche subito dopo il lockdown, luogo in apparenza sicuro vista l’ampiezza degli spazi anche quando il virus sembrava destinato a rimanere con noi per sempre, posso dire di aver constatato con i miei occhi come il colore in apparenza limpido che vediamo ora nulla è rispetto quello realmente limpido che si vedeva allora, con le fabbriche più a nord evidentemente ferme in produzione. A furia di camminare qui, veloci, sia chiaro, non solo conosco una per una le persone con le quali condivido il destino, uniche variabili qualche giovane studente che approfitta dei tavoli in legno sparsi in giro per venire a studiare al fresco, beata ingenuità, qui dalle nove e mezzo è più caldo che dentro il buco del culo del diavolo, direi fossi Joe Lansdale, ma conosco i luoghi che gli animali sono soliti frequentare, l’angolo di prato che abitano le lepri selvatiche, quelle che fanno letteralmente impazzire i cani, specie quelli in formato da caccia, dalle parti di via Deruta, dove un tempo si trovava il tendone dove andavano di scena le prime edizioni di X Factor, l’ansa del fiume dove si muovono le nutrie, che da veri e propri castori hanno costruito piccole dighe per creare una sorta di depandance a loro uso e consumo, gli alberi dentro i quali hanno scavato la loro tana, credo che tecnicamente si chiami nido, i pappagallini verdi che infestano il cielo sopra il Lambro, i loro schiamazzi terrificanti la vera colonna sonora delle mie camminate. Quindi, ripeto, quanti vi dicono, con una punta di spacconaggine, che i parchi cittadini, di Milano e di altrove, sono pieni, specie nelle prime ore della mattina, di altri scalmanati che corrono, loro ovviamente non dicono scalmanati, figurati, scalmanati che corrono, fanno footing o come lo vogliamo chiamare, beh, quanti vi dicono ciò mentono sapendo di mentire. E lo fanno per malafede, puntando a scatenare i vostri sensi di colpa, voi vagamente sovrappeso, comunque non aderenti in pieno al canone di perfezione di una società così vacua come la nostra, votata a un salutismo di facciata che in realtà nasconde solo una santificazione dell’apparenza basata sul sacrificio definitivo di tutto il resto, l’altare dell’effimero ancora fumante di incensi e madido di sangue. Sulla malafede e anche sul fatto che, beata ingenuità, gli altri non ci vanno a correre come scalmanati, e non andandoci si fidano ciecamente da chi lo fa, mosso da un entusiasmo sospetto, certo, infatti assolutamente falso. Ne sono vivo testimone in terra lombarda, perché diverso è altrove.
Durante l’estate, nei giorni in cui ancora il caldo non aveva raggiunto livelli di guardia, e comunque prima di andare in vacanza in Albania, viaggio qui raccontato, ho fatto qualche camminata veloce pure in Ancona, città che mi ha dato i natali e nella quale mi sono spostato con la famiglia. Un paio di volte sono andato al mare, nella spiaggia di Palombina, lasciando la macchina a Collemarino e camminando, i piedi affondati sulla sabbia ancora fresca, fino oltre Falconara Marittima. Una camminata gradevole, all’andata, il sole ancora basso alle nostre spalle, un tormento al ritorno, il sole caldo sparato in faccia, io e mia moglie, in quelle camminate mi ha accompagnato anche lei, ridotti ai minimi termini, mentre intorno a noi era tutto un anzianume chiacchierante, l’acqua del mare a far bene per le vene varicose, dicevano in molte. Abbiamo anche incontrato una ex maestra di mia moglie, che ovviamente appariva molto più pimpante di noi (in realtà di me, mia moglie, va detto, ha affrontato con molta più atleticità la prova marinara, io funziono meglio in quella metropolitana). Una volta, invece, sono andato da solo a piedi fino verso il Passetto, dove abitano i miei, facendo i quattro chilometri che dividono casa loro da casa di mia suocera, dove stiamo quando siamo in città. Una camminata tutta su asfalto, i piedi che alla fine erano lessi, difficile da fare, seppur la parte del lungo porto è davvero bella, e comunque da non ripetere, quando al ritorno sono passato a salutare Raffaella, una nostra amica che ha un negozio di giocattoli in centro, credo abbia pensato avessi un infarto in corso, a riprova che non siamo nati per faticare, quella è una lettura ex post fatta da qualcuno cui il genere umano non stava molto a cuore. Poi è arrivato il caldo, Circe, Erinni, o come diavolo si chiamavano i vari anticicloni di questa estate, e mi sono limitato a fare passeggiate in compagnia e qualche sana nuotata al mare, toh, anche una partitella alla tedesca sul lungomare, nel senso di nel bagnasciuga, a Marcelli, alle falde del Conero.
Tornando invece alle mie camminate al Parco Lambro, il mio viaggio comincia ovviamente da prima, da quando, cioè, esco di casa, in tenuta simil sportiva, non ho nessuno di quei capi imbarazzanti che i corridori da Maratona di Milano ostentano per, suppongo, una sana forma di masochismo che li spinge a doversi mettere in ridicolo di fronte ai loro cari, e mi incammino, sempre a piè sospinto, verso il parco. Incrocio gente che corre, molto più velocemente di me, verso la metropolitana più vicina. Gente che deve andare a lavorare, che quindi mi guarda male come si può guardare male uno che, mentre stai correndo a lavorare, cammina veloce con calzoncini corti e scarpe da trekking, questa la mia divisa. Sapessero, tutti loro, che mentre cammino veloce, versione aggiornata del noto discorso che Joseph Conrad fece, immagino in inglese, come scriveva, a sua moglie, sto lavorando. Poi incrocio alcuni vicini, chi col cane che piscia nei giardinetti a ridosso della ferrovia, chi lì a non fare un cazzo, come nel resto della giornata. Poi passo sotto un ponte, non che ce ne siano molti, Qui, fino a prima dell’estate, incrociavo il giaciglio di un tizio che, giuro, ogni giorno mi ricordava il Cristo morto del Mantegna. Talmente simile, mentre se ne dormiva su un materasso liso, sporco, sfondato, una fila ordinata di scarpe di varia natura ai lati del letto, qualche vestito riposto dentro un carrello di un supermercato usato a mo di armadio, che più volte sarei stato tentato di fotografarlo, magari ci avrei vinto pure un Pulitzer, complice la fretta dei pochi che incrocio mentre passavo da queste parti, le auto che passavano, arrivato il verde al semaforo, decisamente poco interessate ai pedoni che si trovavano sul marciapiede. A spingermi a non farlo una forma di pudore, non tanto per lui, che dormiva, so che dormiva e non era morto perché stava lì tutti i giorni, da giugno fino a metà luglio, tranne forse un paio di giorni nei quali non l’ho visto, e me ne sono preoccupato, molto, pensando gli fosse successo qualcosa, e qualcosa probabilmente gli era successo, vai a sapere cosa, un malore, si era perso, è tornato per qualche tempo in una casa, sempre che una casa cui fare ritorno ci sia e sia a Milano, a spingermi a non farlo una forma di pudore verso me stesso, lì a fare camminate veloci per buttare giù la pancia, certo atto dovuto a questioni di salute più che estetiche, ma comunque una scelta fattibile, possibile per chi ha una casa, un lavoro, tempo per camminare veloce al parco mentre gli altri magari corrono verso un ufficio o se ne stanno a dormire come il Cristo morto del Mantegna, letteralmente sotto un ponte. Poi un giorno, a metà luglio, passando di lì non ho trovato più il Cristo morto né le sue cose, il materasso, le scarpe, il carrello della spesa. Niente. Tutto spazzato via, immagino sgomberato da parte dei vigili. Un vuoto, letteralmente, incolmabile.
Proseguo. Le mie manovre di avvicinamento al parco prevedono poi il costeggiare una strada che porta verso una grande piazza, superando le solite facce seduti ai soliti bar, le solite chiacchiere, come in una versione aggiornata, neanche tanto, del Giorno della Marmotta, e poi via, lungo via Feltre, pronto a entrare nel parco passando dalla vietta laterale che arriva una volta superata l’Esselunga, sul lato opposto della strada. Gli studenti in divisa di non so quale scuola privata, un clochard che cammina tutto storto e ogni mattina si mangia una brioche, immagino gratuitamente, al bar lì vicino, il tizio del baracchino che già di mattino presto comincia a ordinare i pasti che poi venderà a chi si trova da quelle parti in pausa pranzo. La vietta, che al suo termine arriva proprio in via Deruta, un tempo era zona di camporella e di frequentazioni con prostitute, un florilegio di preservativi usati in terra faceva chiaro riferimento al traffico notturno, oggi è invece costantemente presidiato da un cantiere perenne, un vetro andato a fuoco e cristallizzatosi sull’asfalto unico segnale del passaggio dell’uomo degno di nota da queste parti. Al ritorno, ripeto mi muovo seguendo un circuito tutto mio, che prevede il passaggio di fianco a quello che un tempo era il baracchino dove si potevano comprare le birre fresche, a partire dalla primavera, poi chiuso e ora cadente, così come poi costeggio l’altro locale storico, di cui non ricordo mai il nome, i murales a colorarne, male va detto, la facciata, i topi a uscire di continuo dai pertugi, al ritorno prendo l’uscita principale, quella che arriva verso la fine di via Feltre, vicino al centro sportivo Schuster, non quella di fronte al cimitero di Lambrate, per intendersi, ma proprio quella che ha alla sua sinistra il laghetto e ancora prima, uscendo, la pista per gli skateboard. Qui, a volte, raramente, mentre me ne esco arriva un gruppo di anziani, ma anziani anziani. Un gruppo organizzato, con un anziano, meno anziano degli altri, che fa da guida, e indica i movimenti da fare, tutti lì in cerchio a muoversi come se fosse un video che si vede al ralenti. Il laghetto, che un tempo era pieno d’acqua e faceva pensare, specie da ottobre a marzo, a uno scenario degno di finire in un dipinto di Millais, tipo l’Ofelia, oggi è quasi del tutto asciutto, a riprova che le famose piogge torrenziali che proprio qui ha divelto non saprei dire neanche quanti alberi, parecchi comunque, alcuni sono ancora qui, riversi come corpi feriti, di altri si vedono solo le pesanti tracce lasciate dalle radici. Tempo fa, prima delle trombe d’aria e il diluvio di fine luglio, quando Milano è finita letteralmente sott’acqua, in una delle mie camminate pomeridiane, sì, a volte ci sono andato anche di pomeriggio, spesso con mia moglie e i miei figli, ho visto una ragazza cinese, vestita come una sposa e con una lunga capigliatura tendente al rosa, non saprei dire se naturale o parrucca, intenta proprio a fare Ofelia, un ragazzo, anche lui cinese, a pochi passi da lei a farle le foto, il livello dell’acqua talmente basso, parlo dell’acqua del Lambro, non di quella del laghetto che sta alle porte del parco, talmente basso da poterlo attraversare agilmente senza neanche bagnarsi i calzoni corti. Anche per oggi circa otto chilometri e mezzo, me lo dice Google Maps, che monitora il mio cammino, scelta fatta dopo essermi accorto che la app che avevo ingenuamente scaricato funzionava solo se la tenevo aperta, chilometri e chilometri persi da ogni mappatura, alla faccia di Mason e Dixon e Pynchon.
Chilometri che ho percorso tenendo sempre un buon ritmo, nonostante già verso le otto e mezzo sia arrivata una certa calura, le gambe si siano infiacchite, il fiato si sia fatto lento, aver visto un latino americano arrivare con due grandi Peroni in mano e un largo sorriso stampato in faccia mi abbia spinto inverecondamente a rivedere le mie abitudini di vita nel medio lungo periodo a venire. Notazione a piè (veloce) di pagina, oltre a un paio di scarpe da trekking comprate da Dechatlon e un paio di calzoni corti indossavo una t-shirt del rinato magazine Re Nudo, con su lo storico logo che vede una corona appoggiata direttamente su due chiappe di culo di un tizio accovacciato, in chiaro procinto di cagare. Indossarla nell’andare a camminare proprio al Parco Lambro mi sembrava decisamente un gesto avant-pop, postmodernista o comunque aderente a una visione massimalista tanto cara a personaggi quali Hunter S. Thompson, Tom Wolfe o, più recentemente, William T. Vollman e David Foster Wallace, autori decisamente tutti distanti tra loro, ma che tanto hanno dato a un’idea gonza di giornalismo cui mi sento di appartenere. Quando domattina vi mettete in auto per andare al lavoro, o magari ricorrete ai mezzi pubblici, diretti al vostro posto di lavoro, a meno che non siate tra quanti praticano lo smart working, beati voi se lo fate in località esotiche, magari coi piedi bagnati dal mare, pensatemi che cammino veloce, come un Achille che conscio di avere un punto debole non indossa come un pirla i sandali, qui a macinare chilometri su chilometri per voi, e anche un po’ per tenere a bada il mio colesterolo, quando si dice prendere due piccioni con una fava. È tempo di tornare verso casa, non prima di essermi fermato al bar per un cappuccino e un bombolone alla crema (scherzavo, scemi).