L’estate, almeno per me e credo qualche altro milione di persone, è definitivamente finita. Lo dico mentre sto in coda da circa mezz’ora dietro un metaforico camion della nettezza urbana. Metaforico perché in realtà non è un camion, ma una serie di camion, che come in una versione coatta di Matrix, mi si presenta, strana versione del Mr Smith in completo nero, a ogni strada che provo a prendere per raggiungere casa. L’estate, del resto, è noto per chi legge MOW, l’ho passata raccontando le difficoltà del muoversi per strada in Albania, certo raccontando anche tutte le cose belle da vedere, dettaglio sul quale gli albanesi, o almeno qualche migliaia di albanesi che sono incappati nei miei articoli, hanno soprasseduto con un certo fastidio, ritenendo opportuno mandarmi letteralmente a fare in c*lo per quel mio aver sottolineato qualcosa che, dicevano, era molto presente anche nelle città italiane: il caos. Sulle prime ho pensato fossero esagerati, perché del tutto sprovvisti di senso dell’umorismo, avevo iniziato il reportage perculando la mia città natale, Ancona, che dicevo bella solo se vista da una nave che si allontana dal porto, dando quindi le chiavi di accesso alla mia scrittura. Loro, in parte giustificati dal confrontarsi con una lingua non in partenza loro, e perché troppo incattiviti nel sottolineare come in Italia la situazione fosse simile, negano per altro un’evidenza, la carenza di infrastrutture in quella terra che ha proprio in una natura poderosa il proprio punto di forza. Poi ho pensato si riferissero alle città del sud, o a Roma, perché vivo da ventisei anni a Milano e qui il traffico è, per quanto incasinato, piuttosto ordinato. Si rispettano semafori e strisce pedonali, si lascia passare ogni tot chi proviene dalle strade che devono dare la precedenza o rispettare uno stop, appunto, si tende a usare quello che il generale Vannacci chiamerebbe, nel suo caso a sproposito, buonsenso. Poi oggi, primo giorno di scuola dei miei figli piccoli, i gemelli Chiara e Francesco, ho deciso di accompagnarli, nonostante facciano la seconda media, così, per affetto e perché in fondo sono uno che pratica lo smart working dal 2005, l’idea di non averli in casa per parecchie ore al giorno mi devasta psicologicamente, e sono piombato in un incubo albanese però sprovvisto di poderosa natura. Mi spiego. Milano è una città strana, per uno che non ci è nato e ci è arrivato già da adulto, avevo ventotto anni, la cosa è evidente già al primo sguardo. È una città nella quale sembra ci siano delle leggi non scritte cui tutti però obbediscono ciecamente, seppur in assenza di sensatezza e logica. Per dire, arriva l’autunno, anche se stando le cose come oggi probabilmente sarà l’autunno più caldo degli ultimi quindicimila anni, oggi sono trenta gradi come fossimo a luglio, zac, ecco che inizi a vedere gente in giro col piumino. Arriva la primavera, e nonostante faccia un freddo becco ecco che vedi gente in canotta e infradito, presto ricoverata in un sanatorio del Lago Maggiore a sputare sangue dentro un catino. Iniziano le scuole, ecco che tutti, ma proprio tutti tutti si riversano in auto per le strade proprio nell’orario di apertura dei cancelli, questo nonostante nel mentre Beppe Sala, il sindaco dai calzini arcobaleno e le frecce tricolori alle spalle, abbia deciso che le auto sono il nemico e che chiunque provi a muoversi su gomma dovrebbe essere flagellato in ogni modo possibile. Così succede che se ieri di auto in giro ce n’erano, è pur sempre settembre, si trovava serenamente parcheggio sotto casa, questo sempre nonostante Sala abbia deciso che i parcheggi devono essere molti meno di prima, così da indurre la gente a non acquistare più auto, marciapiedi sempre più larghi e sempre più a disposizione di gazebo e bersò di bar e ristoranti, intere aree un tempo riservate allo smaltimento traffico ora divenute di svago, con tavoli da picnic, da pingpong e affini, in pieno centro cittadino; insomma, era settembre ma non ancora l’inferno. Poi stamattina è arrivata l’apocalisse. Sono sceso verso le sette e mezzo, come del resto ero abituato a fare ogni santo giorno l’anno scorso, quando li accompagnavo non per un mio amore spropositato per muovermi su ruota, sarei stato con piacere a letto, ma perché abito lontano da scuola, e il bus è soggetto a rimanere imbottigliato nel traffico, fatto che con auto privata posso aggirare prendendo vie alternative, non costringendo quindi i miei pargoli a alzarsi all’alba, sono sceso verso le sette e mezzo e ho preso l’auto, impiegando cinque minuti solo a uscire dal parcheggio, una lunga fila di altre auto incolonnata in direzione opposta a quella che per altro avrei poi dovuto prendere io. Cinque minuti, lo cantava anche Maurizio Arcieri ben prima di diventare il mito che è stato per la generazione New Wave, sono un lasso di tempo non eccessivamente lungo, ma, giuro, sufficienti per azzerare l’effetto benefico di una disintossicazione da traffico cittadino fatta a suon di mare e piedi scalzi sui sassi (la sabbia, sia messo agli atti, mi fa cagare). Mi aveste parlato in quel momento ero già una sorta di reincarnazione di Vlad l’Impalatore, pronto a dispensare “vaffanc*lo” a chiunque provasse a porsi tra me e la possibilità di muovermi di qualche metro in avanti. Fortunatamente sono riuscito a beccare appunto una di quelle vie alternative, che in realtà è semplicemente la parallela alla via trafficatissima che faccio di solito in compagnia con mezza Milano, e sono arrivato davanti a scuola dei miei figli con un quarto d’ora di anticipo sull’apertura dei cancelli. Fanno la seconda media, per quanto siano molto affezionati l’idea di avermi intorno in seconda media deve essere il corrispettivo di avere un brufolo piuttosto corposo sulla punta del naso al ballo di fine anno, quindi mi hanno salutato fugacemente, invitandomi a sgommare, dal ritorno fino alla fine dell’anno scolastico non sarò più necessario come autista, ci siamo detti, tutti convinti della nostra scelta.
Le sette e quaranta, tempo cinque minuti, ho pensato, e sarò a casa, dove troverò agilmente parcheggio, perché a quest’ora la gente normale esce per andare al lavoro e potrò mettermi a fare le mie cose senza troppe rotture di palle. Le mie cose, per intendersi, sono controllare i quotidiani, quelli che non ho controllato prima di uscire, dare uno sguardo ai social, farmi venire una qualche idea per un pezzo, mandare le mail per convincere i soliti amministratori poco inclini a rispettare le scadenze a non farmi incazzare. Invece già alla prima strada imboccata mi sono trovato in coda dietro un camion della nettezza urbana. La strada in questione, non potete saperlo, è larga, due corsie per un senso di marcia, auto parcheggiate su ambo i lati. Solo che, maledetti, una delle due corsie è sempre intasata di auto e furgoni, specie furgoni, in doppia fila, le quattro frecce accese a indicare la presenza di una testa di cazzo titolare della suddetta vettura. In mezzo c’è anche sempre un autista di un Vito, il van nero della Mercedes, che attende l’arrivo di un paio di bambini, evidentemente figli di gente che si può permettere l’autista per portarli a scuola. Questa è una via residenziale, ci abita per dire De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, che vedo spesso passeggiare in zona. Ci metto un’eternità per percorrerla tutta, anche perché, questo credo sia in qualche modo un diktat di Sala, che vuole in tutti i modi disincentivare l’uso delle auto, il camion della nettezza urbana si muove come un bradipo zoppo e stanco, non lasciando modo a noi auto in fila dietro di svincolare e andare avanti. Cento portoni, cento soste, sacchi lanciati con gesti degni di un atleta dell’Europa dell’est pronta a vincere una medaglia d’oro in ginnastica artistica. A rendere la situazione peggiore, sempre che si possa rendere una situazione del genere peggiore, la radio, io per affetto ascolto sempre RTL 102,5, che mi propone un’intervista a Michela Marzano, lì a presentare il suo ultimo romanzo con tutta la pesantezza che solo lei sa tirare fuori. Sentirla parlare, ma questo è in realtà un artificio retorico che sto tirando fuori per giocare col titolo, a sua volta a richiamare la figura storica di Italo Calvino, nel centenario dalla sua nascita, mi fa venire in mente le abusate Lezioni Americane, di cui io, come tutti, conosco solo quella sulla leggerezza. Esco dalla via che ho percorso con tempi da crociera degni di una processione alla Madonna nera di Loreto, e imbocco una piazza, sempre piuttosto intasata, oggi stranamente libera. Tocco i settanta all’ora, tanto per irridere la proposta di portare i limiti cittadini in tutta Milano a trenta all’ora, non siamo Parigi né Copenaghen, fatevene una ragione, amministratori del piffero, e imbocco la terza grande strada che si presenta sulla destra, finendo di nuovo in una lunga coda dietro un altro camion della nettezza urbana. Sul perché i camion della nettezza urbana, che qui escono due giorni la settimana, il martedì e il venerdì, finiscano in strade tanto trafficate proprio all’ora di punta mi sono spesso interrogato. Nel farlo, confesso, ho speso augurato a chi ci lavora sopra, e anche a chi li guida, spesso le medesime persone, sortilegi indicibili, fatto che mi ha riportato alla mente un vecchio pezzo di Luca Goldoni, letto quando Luca Goldoni scriveva pezzi, cioè quando io ero ancora giovane, un pezzo nel quale raccontava appunto di un ingorgo nel quale era rimasto imbottigliato, siamo ancora rimasti agli anni Ottanta, ditelo a Dua Lipa che ha un’autostrada spianata davanti, dicevo, un pezzo di Luca Goldoni nel quale raccontava appunto di un ingorgo nel quale era rimasto imbottigliato, dando sfogo a tutte le brutte idee che gli erano circolate per la testa mentre rimaneva immobile nel traffico, chiuso dentro la scatoletta della sua auto, salvo poi scoprire, vado a memoria, che l’ingorgo era dovuto a un incidente mortale avvenuto più avanti, lui, misero uomo a lamentarsi per il ritardo accumulato, mentre qualcuno aveva perso la vita. Per me la faccenda è lievemente diversa, ma sono sfumature, nessuno è morto, ma mi lamento di chi passa il tempo a raccogliere i nostri rifiuti, l’olezzo dei rifiuti che per qualche ora, poche, hanno fermentato sul marciapiede, mentre io me ne sto comodamente seduto nella mia auto, l’aria condizionata a refrigerarmi nella calura mattutina. Certo, nel dire questo risulto ancora una volta degno di essere candidato al PD alle prossime elezioni, una sorta di Cirinnà che prova pietà per chi svolge lavori umili, signora mia, ma non era di questo che volevo parlare, volevo dire che io a questi lavoratori dell’Amsa, così si chiama la nettezza urbana a Milano, li maledico e basta, fottendomene dei discorsi di Pasolini su universitari e poliziotti, iniziassero a raccogliere la monnezza prima, invece di rompere le palle a noi che dobbiamo andare a lavorare (io mica mi metto tra un netturbino o come diavolo si chiamano oggi i netturbini, operatore ecologico, immagino, e il suo andare al lavoro, mentre me ne sto seduto al computer a scrivere, loro invece si mettono tra me e il mio lavoro, impedendomi di circolare agilmente con la macchina, lenti e fastidiosi).
Fortunatamente nel mentre la Marzano è uscita di scena, sostituita, RTL 102,5 è davvero strana nella programmazione, con Have You Ever Seen the Rain dei Creedence Clearwater Revival, per intendersi, era stata introdotta da Parafulmini di Ernia, Bresh e Fabri Fibra. Solo che, arrivato alla solita traversa che prendo per andare verso casa, toh, anche lì vedo un camion della nettezza urbana; quindi, decido di rimanere in questa lunga via incasinata, pensando di superare l’ostacolo imboccando la prossima traversa. Questa via, tanto per dare a Sala quel che è di Sala, lunga oltre un chilometro, che congiunge due fermate della metro, così, detto en passant, è stata tutta rimessa a lucido. Per Sala rimettere a lucido una strada significa togliere tutti i parcheggi che aveva, su un marciapiede che divideva le due corsie di senso di marcia, sostituendole con un enorme e lunghissimo giardinetto con tanto di panchine, tavoli da picnic, piante affini. Ha tolto, ho letto, circa ottocento posti auto, ottocento posti auto che non sono stati ricavati altrove, con buona pace dei residenti. Nel mentre, è noto, Area B, divieto di parcheggio sulle strisce blu per oltre due ore, aumenti dei biglietti, prima, e dell’area C, dopo. Arrivo alla traversa successiva, ma, ta-dan, Mr Smith è lì a attendermi; quindi, convinto di essere più furbo di quanto non sono, torno indietro e riprendo la traversa precedente, convinto che nel mentre si sia libera. Sì, figurati. Me la faccio in coda, ascoltando i due giornalisti che alla radio parlano di Pnrr e finalmente arrivo nella piazza sotto casa mia, pronto a prendere la strada dove abito. Prima di partire, alle sette e trenta, avevo visto un posto vuoto e, candido come un giglio sotto l’altare di Padre Pio, mi ero detto “chissà se lo trovo vuoto quando torno”. Sono passati tre quarti d’ora, il posto è ovviamente occupato, e proprio mentre sto per prendere la strada ecco che un camion della nettezza urbana la imbocca prima di me. Mi metto in coda, pensando che potrei anche scrivere un libro, mentre sto in attesa, qualcosa che richiami alla mente l’idea di raccontare un luogo che in realtà un luogo non è, l’abitacolo di una macchina, seppure una macchina a sette posti, quindi spaziosa. Penso a Viaggio intorno alla mia camera, romanzo del 1794 di Xavier de Maistre, pubblicato anonimo e scritto durante un periodo passato agli arresti domiciliari, o a Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey, questo invece del 1821, e comunque rifletto sui pensieri di Walter Benjamin sul divagare e il vagare, a quelli di Guy Debord sul perdersi per le vie di città tutte da scoprire, finendo col dirmi che Iain Sinclair, che ha raccontato la metropoli per antonomasia, Londra, sotto tutti i punti di vista, seppur ami profondamente un cultore della macchina, intesa come auto ma non solo, come James Ballard, un libro sul muoversi a stento per Londra in auto non l’ha ancora scritto, chissà se gli arriveranno queste suggestioni. Mentre stazione davanti al mio portone, sempre chiuso nell’abitacolo della mia auto, conscio che vi farò ingresso probabilmente tra ore, imbottigliato come sono dietro al camion della nettezza urbana, maledetti operatori ecologici, fisso il cantiere che proprio prima di agosto è spuntato laddove prima c’era un meccanico con annessa rimessa di auto. Ci sorgerà, ho letto, un residence, qui, molto figo, con palestra, giardini pensili, spazi per coworking, ovvio, anche con appartamenti di varia pezzatura. Una cosa, ci siamo detti con mia moglie, che migliorerà, sempre che serva, la via, e che comunque alzerà il valore della zona, già rialzato dalla bolla edilizia nella quale Milano costantemente vive, Sala ci ha venduto ai fondi di investimento, è chiaro. Immobile come il Ciro che stasera dovrà tentare di dare una speranza, vana, all’Italia di Spalletti, penso anche che, nei cinque anni che vivo in questa via, tanti ne sono passati da che abbiamo traslocato qui, il nostro palazzo è sempre stato circondato da palazzi sottoposti a lavori, maledetto 110% o addirittura in costruzione. Il che si è tradotto in costanti rumori di fondo, potentissimi, stavolta anche accompagnati dalla necessità di tenere le tapparelle abbassate tutto il giorno, almeno nella parte rivolta verso lì dove sorgerà il nuovo complesso, al fine di evitare di essere invasi dalla polvere, al momento stanno scavando le fondamenta. Sono circa cinquanta minuti che sono in auto, quattro chilometri in tutto. Oggi, ci eravamo detti, sarebbe stato il solo giorno in cui avrei accompagnato i gemelli a scuola, e ovviamente vista l’agonia di questo viaggio di ritorno, la cosa diventerà Cassazione. Svolto nella parallela, sempre accompagnato dal camion dell’Amsa, che però si intenerisce, e fa una manovra anche complessa per lasciarmi passare. Parcheggio e finalmente posso andare a casa. Ho parcheggiato a circa quattrocento metri da casa mia, una distanza che, nella mia città natale, Ancona, probabilmente avrei percorso prendendo l’auto. Sono le otto e qualcosa di mattina, e sono già devastato, innervosito, stressato. Penso alla guida spericolata di cui sono stato vittima per la mia vacanza albanese e mi dico che forse sono stato ingeneroso nel raccontarla così. Mentre apro il portone sento qualcuno che nella strada principale, a pochi metri da me, manda a fare in c*lo qualcun altro con una violenza verbale che riserverei solo a un dittatore sul punto di essere catturato. È solo il primo giorno di scuola, mi dico, ma il rumore degli escavatori che nel cantiere stanno predisponendo le fondamenta impediscono ai miei pensieri di andare fino in fondo, per fortuna.