Il direttore mi dice: “Fatti un giro in bici per Milano e racconta quel che vedi”. Il sottotesto, siamo entrambi uomini svegli, non c’è bisogno delle didascalie, è: “Ultimamente girare in bici a Milano è diventato pericoloso, donne e uomini, soprattutto donne che finiscono sotto i camion, incidenti quotidiani, racconta l’altra faccia della medaglia, dove la faccia principale è la Milano green di Beppe Sala, quella a suon di 300 km di piste ciclabili, di auto senza più osteggiate, tra aumenti delle tariffe di Area C, istituzione dell’Area B, parcheggi che scompaiono nottetempo, disagi vari per chi osasse pensare di muoversi su quattro ruote”. Accetto. Non senza qualche tentennamento. Non tanto per paura di fare una brutta fine, sono una persona prudente, e dovendo inforcare una bici non sarò certo di quei ciclisti che sfrecciano tra le auto, spesso sbadati, va detto anche questo. No, tentenno perché sono nato in una città fatta prevalentemente di colli, quindi di salite e discese, un’unica lingua di terra in pianura, dal Piano, che così si chiama non a caso, verso il porto e poi verso il Passetto. Sì, la mia città natale è Ancona e ai miei tempi, quando le biciclette non avevano le marce, i cambi shimano, l’intelaiatura in carbonio ultraleggera, ma si chiamavano Graziella e pesavano quanto il tipo di Lost coi capelli ricci e lunghi, andare in bici mi sembrava altrettanto esotico, che so, di decidere di praticare il cricket invece che andare a giocare a pallone in strada. Quindi tentenno perché per me andare in bici non è mai stata faccenda naturale. Del resto, ho sempre sostenuto, non siamo fisicamente fatti per andare in bici, la Natura non ci ha munito di pedali, e su questo, lo so, la penso non troppo diversamente dal generale Vannacci, fatto per cui provo una certa vergogna. Forse anche per questo adesso sto inforcando una bici e, non avendone una mia, appunto, proprio una di quelle che si trovano in strada, da sbloccare dopo aver scaricato un’app e averci collegato la carta di credito, alla faccia del green.
La mia idea è di attraversare Milano, non esattamente tagliandola in due, dalla parte opposta a quella in cui abito io non mi sembra ci sia qualcosa di particolarmente rilevante, ma comunque compiendo una traversata. Facendolo, questo ho progettato, passerò proprio da uno degli snodi peggiori, in fatto di traffico, dove proprio in questo 2023 ha perso la vita una giovane mamma, investita dal solito camion senza telecamere per gli angoli ciechi, piazzale Loreto. Parto da una zona di Milano singolare, dove la periferia è quasi assente, si passa direttamente da un’idea di centro e semicentro ai confini cittadini, un paio di chilometri e parte la tangenziale. Anche se adesso mi pensate come un raffinato critico musicale, ho un passato da reporter, attivo su riviste di settore come GenteViaggi o Viaggi e Sapori, e come autore di libri di viaggio e di psicogeografia. Per dire, io alla tangenziale, anzi, alle tangenziali di Milano ho dedicato un libro, ormai quattordici anni fa, Tangenziali – Due viandanti ai bordi della città, scritto a quattro mani con Gianni Biondillo. Coverizzando il London Orbital di Iain Sinclair, che della psicogeografia sono rispettivamente la Bibbia e l’Evangelista, che faceva la medesima cosa a Londra, abbiamo provato a raccontare Milano percorrendo a piedi la bretella che la circonda, si chiami Tangenziale Est, Ovest, Nord o A4. Idea poi ripresa, senza però riconoscerci meriti, da Gianfranco Rosi col suo Sacro GRA, vincitore del Leone d’Oro a Venezia. Anche ad attraversare una metropoli ho dedicato un libro, del 2012, London on the River. Lì tagliavo la capitale britannica, in era pre-Brexit, in compagnia di mio figlio Tommaso, allora settenne, oggi diciottenne, avendo a fianco il Tamigi. On the river al posto di On the road, in sostanza, anche se in realtà noi viaggiavamo su strada, più spesso su marciapiede. Anche oggi credo che viaggerò più spesso su marciapiede, per questa mia idiosincrasia nei confronti dei pedali e delle due ruote, e per i pericoli di cui sopra, con buona pace dei pedoni che dovranno farmi largo. Del resto, da pedone, mi sono trovato tante volte nella medesima condizione anche io, fastidiosa ma sicuramente non nuova. Partirò da Lambrate, quindi, anzi, da quel quartiere limitrofo a Lambrate che di volta in volta viene indicato come Casoretto o Città Studi, a seconda che si voglia sottolinearne la vicinanza con il Politecnico, immagino, o con una zona comunque residenziale ma non radical chic, il famoso campo di grano che Mogol ha descritto per la Pensieri e parole di Lucio Battisti, quella in cui si parla di cinema di periferia, erano altri tempi, e di una vecchia ferrovia, proprio Casoretto. Partirò da Lambrate, per la precisione da via Porpora, che toccherò nella sua interezza, poi circumnavigherò piazzale Loreto, senza prendere però la folkloristica via Padova, dove per altro abita quel Gianni Biondillo che con me ha raccontato le tangenziali, andando invece verso corso Buenos Aires. Di lì procederò praticamente in linea retta, in realtà farò qualche piccola curva, ma poca roba, andando verso Corso Venezia, poi San Babilia, piazza Duomo, il Castello, via via fino a Corso Sempione e poi oltre, verso City Life, il nuovo quartiere per ricchi, quello delle Tre Torri. A questo punto, credo, mi fermerò, avendone abbastanza per scrivere quel che ho da scrivere. Ho provato a studiarmi un passaggio tutto da fare in piste ciclabili, ma sarà che non è il mio pane quotidiano, sarà che anche Google Maps è tarato sul mio essere costantemente alla guida di un’auto, non sono riuscito a capire dove ne troverò e dove dovrò procedere altrimenti. Certo, so che da Corso Buenos Aires fin quasi al Castello dovrebbero esserci, ma per il resto mi affiderò più che altro alle cure di Dio.
Anche stavolta, come in London on the River, avrò al mio fianco mio figlio Tommaso, che però ora è un ragazzone più alto di me, e che per ovvie ragioni tipiche di chi si trova a vivere un rapporto padre/figlio che ha per padre un personaggio eccentrico come me, vive il tutto con un certo disagio misto a imbarazzo. Prima notazione di colore, parlavo prima di bici ultraleggere in carbonio. Le bici disponibili on demand, in giro per Milano, non faccio nomi, durante questo mio procedere ne cambierò tre tipi differenti, credo siano in ghisa rinforzata, forse in omaggio al nomignolo che incomprensibilmente per un milanese d’adozione come me, qui da ventisei anni appena, viene affibbiato ai vigili, i ghisa, appunto. Pesano cioè tantissimo, rendendo il pedalare faticoso a chi, come me, non ha evidentemente sviluppato tutta una serie di muscoli atti al pedalare medesimo. Immagino non abbiate letto il mio Londra on the river, libro uscito per l’eroica casa editrice Ediciclo, al mondo delle due ruote dedicato e sicuramente non baciato dal successo. Lì, però, spoiler, il gioco che inscenavo era duplice, anzi, triplice, partendo da Londra, protagonista assoluta del racconto, e come avrebbe potuto essere altrimenti, mettevo sul piatto sia il rapporto padre di mezza età, toh, padre giovane e bambino piccolo, una sorta de Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Pirsig in chiave ecologista; e la psicogeografia, mio pallino da sempre quando si tratta di raccontare i luoghi. Bene, non so se avete presente come sia fatto l’estensore di questo pezzo da un punto di vista fisico. È, anzi sono, fan*ulo la terza persona, un cinquantaquattrenne alto un metro e settantacinque, capelli lunghi, tendenti al grigio, ricci, barba incolta e una certa tendenza alla pinguedine, giusto arginata da dieci chilometri di camminata veloce al giorno e un menu a base di insalate consumate durante la settimana. Ora, immaginatemi mentre arranco in sella a una pesante bici del comune con al fianco mio figlio, sempre lui, che però nel mentre ha raggiunto e superato i diciotto anni, è alto circa un metro e ottanta, pesa decisamente meno di me e ha una apertura alare, leggi spalle larghe, da ragazzo che passa del tempo in palestra, attività che non ho mai praticato nei cinquantaquattro anni di cui sopra. Non un bello spettacolo, vederci fianco a fianco, perché io, che di questo pezzo sono l’autore, invece che Don Chisciotte sembro Sancho Panza, scusate lo sciocco gioco di parole, lui ‘O Chiattillo di Mare Fuori prestato per qualche ora a fare da badante a suo padre in giro per Milano. Per altro, lui, a mia differenza, la bici ogni tanto la usa, quindi non fatica come me a usare quei muscoli di cui non ero a conoscenza. Via Porpora è molto trafficata. Lo è sempre, del resto, e il fatto di essere prima della riapertura delle scuole credo renda il traffico più fluido solo a ridosso delle otto di mattina, non certo ora che sono le dieci suonate. Qui non c’è nessuna pista ciclabile, già lo sapevo, motivo per cui, prudentemente, ci spostiamo sulla semiparallela, Milano è fatta a ragnatela, mica con pianta squadrata, via Vallazze. Da via Porpora arriveremmo direttamente in piazzale Loreto, facendo questa lieve deviazione dovremo fare giusto un centinaio di metri in viale Abruzzi, una delle otto arterie che lì dove impiccarono il cadavere di Mussolini passano. Via Porpora, evidentemente, ha un suo karma antifascista. Da una parte, verso la stazione di Lambrate, quindi la parte più esterna di Milano, c’è piazza Gobetti, antifascista, e lì a due passi anche quella via Monte Nevoso che fu base delle Brigate Rosse, dove al numero 8 negli anni 90 trovarono nascosti in un cantinfoglio i memoriali del rapimento Moro, dalla parte opposta, verso il centro, appunto piazzale Loreto, divenuta famosa per i fatti legati alla Liberazione, e in precedenza macchiati dell’eccidio di un gruppo di giovani partigiani da parte dei fascisti, scelta quindi obbligata quando si trattò di esporre le spoglie di Mussolini.
Via Vallazze è una via residenziale, una corsia per senso di marcia, molto meno trafficata. A un certo punto, sulla destra, si ammira un edificio progettato da Gio Ponti, la parrocchia di San Luca, subito dopo aver superato la villetta dove abitava Gaber e prima di incrociare la via dove abita Claudio Bisio e la piazza dove si trovano gli uffici della Goigest, società di comunicazione di Dalia Geberscik, la figlia di Gaber e Ombretta Colli. Quando abitavo in zona mi capitava spesso di incrociare Ombretta Colli che veniva a pisciare il cane proprio sotto casa mia, così come mi capitava di incrociare, prima che si dedicasse ai cavalli, Natalia Estrada e Mastrota, ormai separati ma rimasti a abitare vicini. Proprio a ridosso della chiesa di San Luca, ha abitato anche Malika Ayane ai tempi in cui stava con Cesare Cremonini. Dico questo non tanto per fare una mappa in stile Hollywood della zona, ci mancherebbe altro, quanto piuttosto per provare a tenere celato il fatto che siamo saliti sul marciapiedi, nell’imbarazzo palese di mio figlio Tommaso. Non mi sento particolarmente sicuro a pedalare in una via stretta stando in strada, con le auto che arrivano. L’assessore Maran, il candidato alle ultime tornate elettorali che ha preso più voti in Italia, un tempo all’Urbanistica nel Comune di Milano, oggi alle Case Popolari, colui che più di chiunque altro ha spinto per le piste ciclabili e anche impostato il discorso per il limite cittadino sui 30 km orari, abita qui, ciononostante di piste ciclabili non se ne vedono. Passo davanti a casa di Feltri, una di quelle basse e colorate che anticipano l’arrivo di Piazza Aspromonte, e, complice un allargamento della carreggiata, possiamo tornare su strada, proprio al semaforo da sempre presidiato da una prostituta credo mia coetanea. Un tempo, qui in via Vallazze, di prostitute ce n’erano parecchie. Di origine in prevalenza dell’Europa dell’est. Una mi colpiva sempre, quando mi capitava di rincasare tardi. Io e mia moglie, che ancora non era mia moglie, la chiamavamo tra noi “la preside”, per quel suo modo signorile di stare in strada, la giacca appoggiata sulle spalle, gli occhiali con la montatura in simil tartaruga. Credo sia morta, a occhio e croce, ormai sono passati tanti anni. Ora penso che di prostitute non ce ne siano più, come non ci sono più le tante prostitute centroafricane che intasavano viale Abruzzi, dove mi trovo a passare ora, c*li enormi diretti verso la strada, come a mostrare quel che c’era da mostrare. Giriamo verso destra, rivolti verso Piazzale Loreto. Andassimo a sinistra, laddove appunto campeggiavano i c*li delle nigeriane, incroceremmo l’edificio dove un tempo si trovava la sede de La voce del padrone, oggi abitazione privata che si può affittare per eventi quali piece teatrali o vernissage. Il tratto finale di via Pecchio, così si chiama Via Vallazze prima di incrociare viale Abruzzi, è attraversato dai binari del tram, un vero e proprio pericolo. Non solo perché infilarci su le ruote della bici comporterebbe fare un bel capitombolo, ai tempi in cui mi muovevo in vespa, una 125 Primavera Rossa della Piaggio, nella mia città natale, mi sono massacrato finendo su quelle dei treni, dalle parti del porto, ma anche perché tutto intorno ai binari ci sono queste enormi buche, in assenza dell’asfalto. Tempo fa Giovanni Storti, quello col nasone e secco di Aldo Giovanni e Giacomo, da tempo dedito a parlare di ecologia sui social, ha fatto un video molto simpatico immaginando di star lì, sopra una buca di fianco ai binari del tram che passano per via Bramante, tra China Town e il Cimitere Monumentale, tenendo le corde di uno speleologo, calato in profondità.
Lo so, sto ancora tergiversando, e dire che scrivere, quindi narrare, quindi anche mentire, laddove fosse necessario, sempre che sia possibile scrivere senza mentire, è il mio mestiere. Ma il fatto è che attraversare piazzale Loreto è davvero qualcosa di epico. La piazza, che prossimamente la giunta Sala chiuderà parzialmente al traffico, come la parte iniziale di via Padova, costruendo una sorta di piazza nella piazza che sfrutti l’ammezzato della metropolitana, spostando quindi tutto il traffico sul lato dove si trova Corso Buenos Aires, è al momento bagnata, si fa per dire, da otto affluenti. In ordine di arrivo, parlo del nostro viaggio su due ruote, viale Abruzzi, appunto, via Porpora, via Andrea Costa, che poi diventerà via Leoncavallo, quella dove un tempo sorgeva il più noto centro sociale occupato d’Italia, via Padova, viale Monza, che a dispetto del nome porta in realtà a Sesto San Giovanni, viale Brianza, via Andrea Doria, corso Buenos Aires. Otto strade, una sola piazza. Anzi, un piazzale. Nel quale non vi è traccia del luogo esatto dove Mussolini venne impiccato, fatto che ha reso questo piazzale famoso in tutta Italia, anche se a occhio dovrebbe essere proprio dalle parti tra viale Brianza e via Andrea Doria, dove appunto furono giustiziati i partigiani, a quello è dedicata una lapide. Il non indicarlo, credo, renda il tutto ancora più epico, come a non nominare un convitato di pietra. A questo piazzale, e a questa zona tutta, ha dedicato parecchi suoi libri Ferruccio Parazzoli, autore un tempo noto per i suoi scritti religiosi, poi passato a un postmodernismo assolutamente sorprendente, trattandosi di un autore del 1935. Con lui e con Giuseppe Genna, altro autore che Milano l’ha raccontata come pochi, nei primi anni zero, abbiamo firmato un libro a sei mani dal titolo Demoni, sorta di remake dell’omonimo romanzo dostoiveskijano, ambientato proprio intorno a questa zona e ai suoi meandri. Nello scriverlo, è uscito a inizio 2003, eravamo soliti incontrarci a casa di Parazzoli, sopra dove un tempo si trovava l’Upim. Un giorno, un po’ inquieti per quel nostro star lì a sfrugugliare intorno al Male, io e Genna ci decidemmo di dire al nostro partner che avevamo intenzione di chiudere lì l’opera. Ce lo stavamo dicendo proprio all’incrocio del piazzale con viale Brianza, dove oggi si trovano tutta una serie di fiori e fotografie, un supermercato cinese non ho capito dedicato a che tipo di merci a occupare la scena. “Non possiamo più scrivere di cose così intrinsecamente legate al male,” concludiamo io e Genna, quando sentiamo un boato fortissimo, forse il più potente che mi sia mai capitato di sentire in vita mia, e ho passato anni e anni a seguire i concerti sotto il palco, per capirsi. Ci giriamo proprio in direzione di Viale Abruzzi, da dove ci sembrava venisse il botto, e vediamo le vetrate del palazzo della Shiseido tremare, manco fossero foglie al vento. In realtà, lo avremmo capito nel giro di pochi istanti, il boato arrivava dalla parte opposta, da in fondo a via Doria, il palazzo della Shiseido aveva solo fatto da sponda al rumore. Un aereo di piccolo cabotaggio si era andato a infilare dentro il Pirellone, poi si scoprirà per una assurda idea di suicidio messa in pratica da un cittadino se non ricordo male svizzero che non aveva troppa cura di spaventare una intera città nell’atto di mettere fine alla sua vita. Per tutti, noi due compresi, quello era un attentato pari a quello delle Twin Towers, accaduto non troppi mesi prima. Il tempo di salire da Parazzoli, all’ottavo piano, per ritrovarcelo sulla soglia della porta di casa che si sfrega le mani dicendo, “I fatti sono compiuti”.
Per lui piazzale Loreto era una sorta di luogo metafisico, esoterico, nel quale il Male si esplicitava in mille maniere diverse. Mica per caso qui in zona abitava il personaggio che aveva scelto come protagonista della sua parte de I Demoni, avevamo scritto a sei mani ma ognuno si era occupato di una singola parte, Dante Virgili, scrittore pazzo e di grande visionarietà in odore di nazismo, cui in seguito avrebbero dedicato opere anche Antonio Franchini e Alessandro Zaccuri. In quello stesso angolo dove io e Giuseppe Genna ci spaventammo a morte, recentemente, il 1 febbraio 2023, ha trovato la morte una donna di trentotto anni. Per lei sono i fiori, i disegni, le foto. Per lei, a ridosso dell’incidente, i tanti ciclisti che percorrono ogni giorno Milano su due ruote, hanno inscenato una protesta, bloccando il traffico. Non lo sapevo, e mi sono trovato a maledirli, fermo in mezzo a un ingorgo gigantesco, diretto verso casa. La donna è finita sotto le ruote di un camion, nell’angolo cieco. Una morte orribile, penso. Attraversare Piazzale Loreto in bici, o meglio provare a circumnavigarla, perché per imboccare corso Buenos Aires arrivando da qui tocca fare il periplo della piazza, è impresa impossibile. La pista ciclabile, giunti all’altezza di via Padova, taglia in diagonale la strada, alla faccia della lunga striscia di strada dedicata ai ciclisti che dal Duomo dovrebbe condurre fino a fiori Milano, passando per viale Monza. Un taglio in diagonale che per altro incappa in un’altra problematica, mica da poco, davanti a dove appunto c’era l’Upim, diciamo tra viale Monza e viale Brianza, non ci sono che tre, quattro posti auto, quindi tutti quelli che vi si vogliono o devono fermare, qui non è previsto un parcheggio, se non nelle vie laterali, non può che infrangere la legge, andando a occupare proprio la pista ciclabile. Fatto grave e pericoloso, me ne rendo conto proprio ora, ma che succede praticamente per tutto il giorno. Anche attraversarla a piedi, del resto, piazzale Loreto, non è semplice. Meglio passare nell’ammezzato della metropolitana, almeno finché non lo toglieranno in parte per farci una piazza, o si rischia di impiegarci anche dieci minuti. Arrivato nel lembo di strada che congiunge via Padova e viale Monza, dove ora c’è un palazzo tirato a lucido di recente, scendo dalla bici, con il sudore freddo lungo la schiena. Mi è appena passato a fianco uno di quei giganteschi tir della Esselunga, seppur non mi abbia sfiorato lo spostamento d’aria ha messo in crisi anche i miei ottanta chili. Ho fatto neanche due chilometri, in parte su un marciapiede. Qui ci sono un paio di casottini che vendono libri usati, tra i pochi rimasti in giro per Milano. I libri sono quel luogo sicuro dove mi rifugio quando mi sento in pericolo, come ora. Dico a mio figlio di mollare lì la bici del Comune, come del resto faccio anche io. A sue domande puntuali rispondo vago, tentare di fare un viaggio implica anche la possibilità di fallire, pure a poco dalla partenza. Non so se Sala riuscirà nella sua impresa di impedire il traffico di auto dentro Milano, rendendo il capoluogo lombardo qualcosa di simili a certe città del nord Europa e scontentando in un colpo buona parte del suo elettorato. So solo che finché così non sarà io le bici le lascerò serenamente a occupare i marciapiedi, in attesa che qualcun altro le vada a noleggiare. Come recitava la famosa pubblicità progresso del Maurizio Costanzo Show, che in realtà non credo parlasse di bici e di piste ciclabili e di camion in giro per la città, “preferisco vivere”.