Ogni viaggio ha una partenza e un ritorno. Oggi, sedicesimo viaggio, è arrivato il momento di ritornare a casa. O almeno in quella che è casa durante l’estate, Ancona, e che è stata casa per i primi anni della nostra vita. Comunque lasciamo l’Albania, consapevoli di avere ancora un paio di settimane di decompressione prima di tornare a Milano e riprendere la vita di tutti i giorni con la furia che solo un settembre quando si hanno figli che frequentano le scuole ti fanno conoscere, e con quella malinconia struggente tipica della fine di un viaggio che tale si possa definire, non solo dispiacere perché una condizione favorevole sta per terminare, anche, ovviamente, quanto piuttosto la mancanza di qualcosa che non si è vissuta del tutto, credo altrove la chiamino Morabeza. Tornare a casa, per noi che a questo punto del viaggio siamo a Ksamil, significa caricare la macchina di valige e sacche varie, e se si è in cinque, di cui un diciottennne e due quasi dodicenni, fate un po’ voi, è una impresa degna di Odisseo, poi guidare per qualche ora, Google Maps attesta serafico e ottimista tre e mezzo, ma dopo due settimane qui ben so che mente spudoratamente, tre ore e mezzo di strade di montagna, tornanti, sorpassi azzardati, tutta quella roba lì, poi fare il check in al porto di Durazzo, imbarcarsi, immagino facendo ancora una volta manovre scomodissime, quindi attesa prima della partenza e solo alle diciassette, ora che stiamo per partire non sono neanche le nove di mattina, spararsi un viaggio di altre, speriamo, sedici ore, all’andata furono diciannove, posto in poltrona, e che Dio ce la mandi buona. Tutto già elaborato, con le variabili del caso, ma comunque organizzato a puntino, per evitare inconvenienti, come quelli del tipo che a Bari ha implorato ripetutamente a beneficio di camera il capitano di farlo imbarcare, tanto per salvargli la vacanza, nel nostro caso salvare il nostro ritorno. Una variabile, in effetti, c’è stata, e si è manifestata durante la notte, anzi, già in serata, sotto forma di nausea, mia, e dolori piuttosto intensi all’intestino. Mentre mangiavo il pesce, un mix all’acquapazza, mi sono accorto che qualcosa non andava, e in effetti durante la notte Montezuma è arrivato anche da me, seppur in forma molto meno aggressiva che con mio figlio. Piccola differenza, a parte l’età, e solo chi non frequenta minori o non ha memoria di quando era un minore non ricorda che capacità di recupero si ha da piccoli, cosa che a cinquantaquattro anni avviene con tempi molto più calmi, piccola differenza, dicevo, che sarò io a dover guidare e che poi mi aspetta un viaggio in nave, non esattamente un toccasana per chi soffre di nausea. Di fatto partiamo, nella speranza che mi reggano le forze, e devo dire che tutto fila più liscio del previsto. Un solo cavallo mi taglia la strada, in autostrada, nel tratto successivo ai tornanti prima dello svincolo con Argirocastro, e quando saremo costretti a fermarci, per i motivi di cui sopra, in un locale lungo la carreggiata, come sempre in questi giorni lo troveremo impeccabilmente pulito. In tutti questi giorni mai una volta ci capiterà di trovare una toilet sporca, al limite un po’ naif, con bolier a vista, planimetria fantasiosa, ma sempre puliti di fresco.
Il viaggio, ma nessuna sorpresa a riguardo, non è durato tre ore e mezzo, tre ore e mezzo per duecentoquarantaquattro chilometri, siamo pur sempre in Albania, anche se parte del tragitto era in effetti in autostrada, quanto piuttosto quattro ore e un quarto, tutto nella norma e comunque con l’arrivo al porto in ampio anticipo. L’idea è di fare pranzo al Terminal, dove prima avremo fatto il check in, io per altro non intendo affatto pranzare, per poi imbarcarci non troppo presto, perché in genere, ci hanno detto, chi sale per primo esce per ultimo, visto che le auto sono parcheggiate sotto forme di tessere del domino. Prima sbagliamo strada, ci sta, non siamo pratici di Durazzo, si sarà capito dal fatto che abbiamo scoperto di non averci soggiornato solo al momento di lasciare Kavajes, poi ci siamo messi in coda a una lunga fila ferma immobile. La cosa che dovrebbe sorprendermi, ma ormai non mi sorprende più nulla, è che alcuni degli autisti delle auto che sono di fronte a me scendono dalle loro vetture, un po’ come capita in autostrada da noi quando c’è un ingorgo, ma poi se ne vanno verso il terminal a piedi, lasciandole lì. A quel punto, paese che vai usanza che trovi e quindi usanza che prendi, suggerisco a Marina di andare a fare il check in a piedi, mentre io resto in coda. Il tempo di scendere coi documenti che ecco arrivare una macchina della polizia che urlando ci dice, lo dice a me e ai pochi altri presenti in coda nella propria vettura, che non è quella la coda giusta, ma che dobbiamo metterci su quella a fianco, che tecnicamente sarebbe per i camion, così c’è scritto sulla cartellonistica. Del resto mi è capitato di vedere poliziotti dirmi di accelerare per liberare un incrocio mentre c’erano auto che lo intasavano, o un operaio che usava un cartello di stop, di quelli che si usano a mano nei cantiere lungo le autostrade, per far segno di accelerare, che sarà mai il mettersi in coda su una corsia sbagliata. Di fatto scopro che quella era una fila di auto parcheggiate, da gente che in effetti era al Terminal, quindi per non saper né leggere né scrivere, arrivato lì davanti, lascio la macchina al parcheggio dei taxi e vado a fare il check in, mentre la mia famiglia pranza. Dietro di me, sempre nel posto taxi, parcheggia la macchina del poliziotto, quello che urlava, alto quasi due metri. Bivacchiamo lì insieme a altri turisti, in parte, ma non in maggioranza, italiani. Pochi albanesi, sembrerebbe, a differenza che nel viaggio di andata. A calamitare la nostra attenzione c’è una ragazza napoletana, con al seguito una amica silenziosa e un paio di uomini impalpabili. La ragazza parla a voce alta al telefono, piuttosto agitata. Si capisce che ha perso la nave, e che sta parlando con l’agenzia che le ha fatto i biglietti. Dice che la nave è ancora lì al porto, dal che si potrebbe presumere sia arrivata tardi, ma a un certo punto, parlando con un signore albanese che vive in Italia, al nord, sembra che il problema sia di overbooking. Inizialmente è fuori dalla grazia di Dio, ma minuto dopo minuto, questa scenetta occupa almeno una ventina di minuti del nostro soggiorno nella hall all’aperto del terminal del porto di Durazzo, passa a un grado di amarezza disperata. Non esiste una soluzione, sembra, se non prendere una nave domani, pagando un biglietto supplettivo, scontato ma comunque presente. Senza avere per altro un albergo pagato da qualcun altro. Il tipo, l’albanese, che sembra trovarsi nella medesima situazione, la tipa lo ha citato un paio di volte, dicendo che ha anche saputo non essere stato il primo caso, dice che in fondo gli è andata bene, si faranno una giornata in più di vacanze, ma nessuno sembra particolarmente felice. Se io fossi un giornalista, uno di quelli che inseguono le notizie, ora sarei lì a parlare con loro, provando magari a tirare fuori una qualche polemica che funziona sempre. Anche solo per mettere qualche ombra in questo oceano di luce che questa estate sta invadendo l’Albania, Giorgia Meloni è ancora da queste parti, con Edi Rama. Ma non sono un giornalista, ho passato la notte sulla tazza del cesso e dopo aver guidato oltre quattro ore mi attende un lungo viaggio in nave, credo che quel che ho capito sia più che sufficiente per i miei scopi. Piccola notazione di colore, il tipo albanese racconta di essere andato in passato una volta in moto fino a Napoli, e di come gli abbiano rubato la moto e, chiamandolo incredibilmente sul cellulare, il fatto che sapessero il suo numero nel racconto occupava quasi la parte centrale, gli abbiano chiesto cinquecento euro di riscatto, o paghi o non la vedi più. Una faccia una razza. Li lasciamo tutti al terminal, chissà quale sarà il loro destino, mi chiederei se… insomma, ci siamo capiti.
La nostra nave stavolta non si chiama Marina, ma Claudia, è molto più grande e spaziosa di Marina, e ci saliamo su per quinti, consapevoli della storiella che chi entra per primo esce per ultimo. Il fatto è che siamo stanchi, e non abbiamo voglia di stare ancora al Terminal. Del resto stavolta mi fanno salire di muso, mi fanno fare inversione a U una volta a bordo e parcheggiare sul ponte, non ci sono parcheggi sotterranei, vicino alla fiancata. Anche la parte delle poltrone è più grande stavolta, solo che a differenza dell’andata entriamo per primi e, presi i nostri posti, scopriamo con un certo sgomento che passate le due ore di attesa, non ci sarà neanche un posto libero. Questo nella sala poltrone, dove ci saranno i soliti materassini, un vero lettino in metallo, per altro piuttosto resistente, vista la stazza della tipa che ci dormirà sopra per tutto il viaggio, e un via vai di gente alla ricerca di un posto da far venire il mal di mare. Il resto della nave è del resto un puzzle di famiglie buttate ovunque, nelle poltroncine del bar, nei corridoi, su per le scale, credo che siamo i soli sciocchi a aver pagato l’extra per le poltrone, per altro per non dormire un minuto, perché questo succederà, scomode come sono le poltrone se si usufruisce di una sola di esse (all’andata ho dormito su quattro poltroncine vuote, a mo di letto). La nave, miracolo, parte in anticipo, il che fa ben sperare per l’orario di arrivo, perché non credo che reggerei diciannove ore di nave, a questo giro. Stanco, anzi, stremato, mi lascio andare a qualche considerazione, sapendo bene che siamo arrivati non solo alla fine del viaggio, ma anche di questo diario, che ha accompagnato le mie serate, e non solo, e che ha visto il mio mini iPad come device, prima volta che scrivo un libro così.
La gente di qui, provo a partire dalla gente. Lasciamo da parte gli stereotipi sugli albanesi, che spero siano stati superati ovunque da tempo, neanche voglio prenderli in considerazione, anche se alcuni albanesi ci hanno detto che in Albania si sta tranquilli perché i delinquenti sono tutti scappati, in qualche modo alimentando quegli stereotipi dall’interno. Parliamo dello spazio pubblico che gli albanesi occupano in quello che è il mio mondo, quello della musica. Ho parlato, azzardando di scivolare nel razzismo, nel body shaming, nelle gaffes internazionali e in tutta una serie di situazioni sgradevoli e rischiose, quasi lombrosiane, di Dua Lipa e Rita Ora, chiarendo senza se e senza ma che pur essendo originarie di qui non sono esattamente la tipica bellezza locale. Avrei potuto allargare il discorso, che so?, al ballerino Kledi, che ricordo essere stato a lungo del giro di Maria De Filippi, e che in quanto tale ho ovviamente perso di vista da tempo, o Ermal Meta, così da essere inclusivo e antipatriarcale, e in qualche modo smorzare i danni fatti, ma ritengo che se vuoi fare le cose devi farle per bene e fino in fondo, quindi sticazzi. Oggi invece andrò oltre, alzando se possibile il tiro, andando a indicare quello che invece mi sembra un perfetto archetipo di albanesità, e addirittura, una faccia una razza, di buona parte dell’italianità presente a Ksamil. Parlo, mettetevi comodi e tirate fuori i popcorn, del cantante, sic, e tiktoker Loris, un milione e centomila followers, e del suo compare Emanuel. Li ho conosciuti, di faccia e di nome, credo anche di voce, l’altra sera, durante il lunghissimo black out. Anzi, subito prima. Loris ha fatto questa canzone, Sono albanese, quasi tre milioni di views su YouTube, che è un manifesto di spirito patrio cantata da chi in patria non ci vive, forse neanche ci è nato, sicuramente la rimpiange pur avendo in Italia un successo che, diciamolo, è quasi del tutto inspiegabile. Nel testo parla di ambizioni, di rimpianti, di esibizione di status symbol, di spirito nazionale, esteso anche a Kossovo, ovviamente. Parla a anche di usanze buffe, come le mamme che lanciano ciabatte con precisione da quarterback, di caffè offerti a centinaia, di vacanze in patria attese come non mai. Al suo fianco un collega cantante, sic, Emanuel, che a sua volta è il titolare di alcune delle storie della hit, quasi tutta in albanese, Krenar, con B2N, oltre dodici milioni di views su YouTube, quella che recita la già citata strofa “se tu vedi Mercedesi è sicuro che è albanesi/ se tu vedi che è firmato in Albania è stato comprato”, scopro solo in questa occasione citata anche da Matteo Salvini in un video su Tik Tok con lo stesso Emanuel. Un video, quello di Krenar, che ostenta una ricchezza spavalda, fatta di macchinine, belle donne (non accusate me di patriarcato, non sono io il regista), location da favola, anche se nel testo si parla di sacrifici fatti per arrivare a quei risultati, esattamente come in Sono albanese, che come L’italiano di Toto Cutugno, seppur con sonorità moderne, tra urban e trap, inanella quelli che si potrebbero anche chiamare luoghi comuni, dall’iniziale “sei albanese se alla pizza preferisci il byrek”, piatto tipico di qui, che ancora non abbiamo provato, una pasta sfoglia ripiena di carne e verdure. La parte di Emanuel, che arrota tantissimo le erre, come un po’ tutti gli albanesi, appunto, è un susseguirsi di ostentazioni, anche piuttosto ironiche, dal portare a Santorini o in Sardegna a Saranda la propria bella, salvo poi proporle di rimanere a casa per risparmiare. Ma non si ostentano solo ricchezza, vera o presunta, anche comportamenti particolarmente sociali, tipo il matrimonio che dura un mese, il fatto che ogni donna, ciao Barbie, qui cucina per trenta persone o che un pranzo qualsiasi qui sembrai una Comunione, con un continuo parlare di mangiare, bere, vivere bene, divertirsi. Loris, titolare del brano, dice una frase molto lucida, “In Albania non esiste la depressione/ se va tutto male scaccio e ballo”. Una sorta di contraltare a quella detta da Emanuel “Se tu guadagni 500 euro e vivi come un re” che non a caso chiude la canzone dicendo “vivo in Italia da anni/ voglio fare tanti soldi/ per fare in Albania casa a tre piani”. Più chiaro di così. Considerando i numeri pazzeschi che questi due fanno, i due milioni e novecentomila albanesi viventi in patria, dieci milioni nel resto dei paesi balcanici, Kosovo, Macedonia del nord, Grecia, Turchia, la nazione col maggior numero di albanesi al mondo, cinque milioni, un milione e mezzo nel resto d’Europa, di cui circa quattrocentomila in Italia, seconda comunità di migranti dopo quella marocchina, direi che prenderli in considerazione per confrontarsi con la cultura popolare contemporanea di questo popolo sarebbe sensato, assai più che sghignazzare perche queste canzoni sono oggettivamente divertenti ai nostri orecchi. A vederli, da lì ero partito, sembrano dei maranza come tanti di quelli che si vedono in giro per l’Italia, dove in effetti vivono, altro che Dua Lipa o Rita Ora, ma ci dicono molto più di quanto gli shorts video potrebbero far pensare. Gente che idealizza la terra d’origine, come spesso capita a chi è migrato o è figlio di migranti, ma al tempo stesso l’adesione a canoni di dove ci si trova a vivere, lasciando che l’idea di Albania diventi realtà solo per qualche giorno all’anno, in momenti di svago, di ritorno, di rimpatriata, non solo letterale, ma anche letteraria. Gente che però fa musica che, seppur filtrata da suoni che ai nostri occhi suonano esotici, è assolutamente la musica d’oggi, in Italia come nel resto d’Europa, probabilmente perché anche loro, come cantava Elio nell’incredibile Complesso del primo maggio, hanno fatto propri i versi “la musica ci ha rotto i coglioni/ è bella e tutto quanto/ ma alla lunga rompe i coglioni”. Sta arrivando mezzanotte, e qui di dormire neanche se ne parla. A tenerci svegli alcune liti, sempre per i posti occupati indebitamente, o anche semplici richieste di spostarsi, oltre i comportamenti bizzarri di alcuni soggetti, come un ingegnere napoletano di stanza a Jesi, sposato con una signora polacca, che attacca bottone a un albanese raccontandogli tutta la sua vita, dove lavorava, quando è stato licenziato, come si è riciclato come autore di libri di ingegneria applicata alla medicina, al punto da aver aperto anche una propria casa editrice, il tutto finendo poi a provare a pizzargli un set di occhiali a lenti focali, ha detto coi suoi modi da gagà del Vomero, tentavico fallito miseramente. O come la famiglia che è venuta a reclamare i propri posti, quattro, verso le ventitré, spodestando legittimamente madre, padre e due figli tedesci, lui praticamente un attore di Hollywood, lei un troll, famiglia capitanata da un tizio con gli occhi cerulei costantemente sgranati che passerà parte della notte andando in giro con uno spazzolino e il tubo del dentifricio in mano. Fauna di mare, canterebbero Tozzi e Raf parodiando la loro hit anni ottanta, il cui video, lo dico con quel velo di malinconia che il saper di tornare nella nia terra natale, che ho lasciato in esilio ventisei anni fa, porta sempre con sé, è stato girato a Numana, sul Conero. È tardi, io e Marina scendiamo al bar, una birra e una lemonsoda, fate voi il chi prende cosa, e se ne riparla al prossimo viaggio.