La scelta di che musica ascoltare in auto, se fai viaggi on the road che comportino parecchie ore passate in strada, è faccenda complicata che richiederebbe quasi uno studio sociologico, se non antropologico. Non tanto sui gusti musicali, che nella stragrande maggioranza dei casi sono legati a emozioni e sentimenti – quindi decisamente discutibili, date una guardata alle classifiche di vendita, chiamiamole così finché non si decideranno a chiamarle di streaming, per credere – quanto piuttosto per capire le dinamiche vigono all’interno della microcomunità familiare. Per dire, conosco miei amici che per anni hanno ascoltato ai loro figli quelle cagate che si fanno ascoltare, per motivi che mi sfuggono, ai più piccoli, tipo Le tagliatelle di Nonna Pina, rinunciando quindi in un solo colpo non solo ad ascoltare musica decente ma anche a formare le nuove generazioni, convinte non solo di avere una qualche voce in capitolo riguardo i fatti della vita, teoria subito smentita nel momento in cui, cresciuti, si affacceranno al mondo del lavoro, ma anche di avere capacità intellettive tali da poter scegliere che musica ascoltare in presenza di adulti, senza che loro oppongano resistenza. È vero, non faccio testo, io sono un critico musicale e ho un gusto educato e una discografia composita di decine di migliaia di album, e soprattutto col tempo ho maturato una tale intolleranza alla musica brutta, musica brutta che devo spesso ascoltare per lavoro, da rifiutarmi categoricamente di lasciare ad altri le redini, fossero anche mia moglie e i miei figli. Così è successo che quando erano ancora in età da scuola materna sapessero a memoria tutto Macramè di Ivano Fossati, per dire, conscio come ero che poi la società, attraverso la scuola e le cattive frequentazioni, lì avrebbe traviati.
Di fatto, però, non mi piace fare il despota, non platealmente, quindi il mio influsso è più che altro di tipo psicologico, tipo che sono io a scegliere i cd che ci portiamo dietro, la mia auto ha un lettore cd che è costato credo quanto la macchina stessa, mai meno di una cinquantina di titoli, alcuni dei quali fissi in auto da tempo, penso a Bingo di Margherita Vicario, a Mymamma de La Rappresentante di lista, a Guarda dove vai di Marta Tenaglia. Quindi, secondo il buon senso del padre di famiglia, lascio che loro scelgano tra i cinquanta titoli che io ho scelto, illudendoli di avere il controllo della situazione, un po’ come il potere è solito fare con noi cittadini. Un titolo che trova sempre tutti concordi, in realtà alla fine scegliamo quasi sempre io e mia moglie, che stiamo davanti, io alla guida e lei al mio fianco, è Fake News dei Pinguini Tattici Nucleari, band che piace sia a noi adulti che ai più piccoli.
Tutto questo discorso perché il racconto di oggi parte da una considerazione che mi ha ispirato un passaggio di Giovani Wannabe, quando lui dice a lei “nel tuo feed hai solo foto di paesaggi, forse perché sei un paesaggio pure tu”. Non ho foto di feed, perché ho cinquantaquattro anni e non parlo così, e perché le foto che faccio me le tengo quasi sempre per me, lasciando ai social giusto il contentino necessario a far sapere che sono vivo e vegeto, ma mi sono chiesto spesso, trovandomi sempre la memoria del cellulare piena per i video e le foto, quante foto avrei fatto se invece di usare il cellulare avessi usato, come in tanti dei nostri viaggi prima degli smartphone e della macchinetta digitale, una macchina col rullino. Foto che avrei visto solo al ritorno e che siccome costava far sviluppare avrebbe comportato un ragionamento su che panorama immortalare, quante volte comparire (i selfie non esistevano, al limite le macchine più cool avevano l’autoscatto). In pratica, oggi volevo partire da qui, che foto avrei nel mio feed se il mio feed esistesse e quali foto potrebbero meglio rappresentare questi primi nove giorni, dieci se ci mettiamo la nave, di viaggio? Lasciando da parte i Pinguini Tattici Nucleari, direi che le cose che ricorrono più spesso, a parte i paesaggi marini, montanari, collinari, cittadini, sono le foto dei bunker, credo di averne scattate letteralmente centinaia, e di animali, cani, mucche, asini, capre e cavalli. Al punto che, se dovessi pensare a una ipotetica copertina di libro, avrei difficoltà a sceglierne una tra la mucca che pascola davanti al cartellone di una spiaggia, gli ombrelloni a fare da sfondo, e un bunker gigantesco immerso nell’acqua, entrambe scattate quando siamo andati a Punta Portez. Ma di animali ne abbiamo visti davvero tanti, e veniamo a oggi, anche stamattina appena alzati.
Se ieri la giornata si è chiusa con il principio di incendio di fronte a casa, oggi si è aperto col classico suono della campana di una mucca, mucca che in effetti stava pascolando esattamente dove ieri c’erano le fiamme. Il tempo di preparare il caffè ed ecco la mucca si è spostata. In questa casa, come per altro a casa mia, ogni stanza ha un balcone. Ecco la mucca, la vedo avvicinarsi all’albero di fichi che ieri ho provato a depredare col permesso del contadino che gestisce la casa e col poco ausilio di una scala piuttosto bassa. Di più, eccola che comincia a mangiarsi i fichi, e le foglie e i rami, tirandoli con forza attraverso il filo spinato che in teoria dovrebbe impedire agli estranei di prendersi proprio i fichi e anche il resto. Ovviamente immortalo la cosa, e visto che nel mentre è venuto su il caffè e io ho preparato la colazione a tutti, questo il mio compito, la cena, quando stiamo a casa, la fa mia moglie, mentre io scrivo, eccomi a chiamarli, dicendo anche di fare veloci, perché c’è una mucca che sta mangiando i fichi. Ovviamente un solo richiamo non basta, quindi devo tornare alla carica, ma purtroppo sarà troppo tardi. Nel mentre è infatti arrivato il contadino, sempre lui, che imprecando, temo anche contro di me che me ne sono stato lì a fare foto mentre la mucca distruggeva il fico, raccoglie una enorme pietra da terra, grande come un mattone, e la tira contro la mucca, colpendola nel sedere. Una scena violentissima, ma anche piuttosto divertente, perché la mucca comincia a correre velocissima, e sfido chiunque a dirmi se ha mai visto correre una mucca, usando una Audi nuova di zecca parcheggiata li di fianco come barriera tra sé e il contadino, che non molla. Poi la mucca torna sui suoi passi e corre in salita, esattamente da dove arrivava il contadino, e la sola scena che vedono i miei figli è di questo anziano signore che imprecando raccoglie un’altra pietra e corre in salita. Benvenuti in Albania, dove gli animalisti hanno la stessa possibilità di esistere di una mucca che provi a mangiare fichi a colazione.
Mi sono concentrato molto sulla musica da ascoltare in auto, passando poi a parlare di foto e quindi della mucca che ha passeggiato come me coi fichi, perché di macchina oggi ne abbiamo fatta un po’, circa un’ora e tre quarti all’andata e altrettanti al ritorno, senza però ascoltare neanche una canzone. Per andare nei due luoghi che avevamo in programma di vedere oggi, infatti, abbiamo dovuto di nuovo salire al Llogara National Park, scavallando gli oltre mille metri del passo, credo di Dukat, per poi ridiscendere fino a quasi il livello del mare. Io odio profondamente guidare in montagna, specie in luoghi che non conosco, e odio di più guidare mentre i freni fanno uno strano rumore, e benché io abbia fatto vedere la macchina prima di partire i miei freni fanno uno strano rumore. In pratica ho passato oltre tre ore di ansia, oggi, cosa che mi ha ovviamente reso nervoso. Nonostante il verde del parco, nonostante la naïveté di vedere tutti quei venditori di miele in strada, spesso a vendere miele dentro bottiglie di plastica dell’acqua, nonostante arrivati in cima ci sia un belvedere da togliere il fiato, la costa a sud di Valona, se possibile, è anche più bella della baia di Valona stessa, e stiamo parlando di tanta roba. La prima tappa della giornata è Dhermi, ridente località di mare, da su si vedeva questa acqua azzurra che sembrava di stare ai Caraibi. Solo che noi non andiamo a Dhermi Beach, cioè al mare, ma proprio a Dhermi Dhermi, cioè a far visita al paese. Si tratta di un borgo antico, di chiara origine greca, che merita una visita. Se solo si riuscisse a capire come entrarci, perché la strada lo costeggia da sotto, senza mai dare accesso al paese, e lungo la strada, in teoria, non c’è posto per parcheggiare. Chiediamo anche a dei poliziotti, che ci dicono, indicando il paese ben visibile sopra le nostre teste “Dhermi è lì”. Non rispondo “Grazie al caz*o” solo perché magari capiscono l’italiano, cosa di cui dubito. Ma visto che siamo in Albania, e vogliamo vedere il paesino in questione, finisce che mollo la macchina in strada, in un punto appena più largo del solito, esattamente come fanno i locali, e iniziamo a salire per delle scale.
Sappiamo che ci sono da vedere tre chiese, che nei vari blog chiamano monasteri. Uno, in alto, dedicato ovviamente alla Madonna, è chiamato il Monastero Bianco, e in effetti da qua sotto bianco appare. Saliamo, ovviamente senza incontrare un cazzo di indicazione che sia una e senza incontrare anima viva, al punto che Dhermi sembra quasi un paese fantasma. Mia moglie Marina dice qualcosa tipo “Dhermi deve essere il paese degli albanesi che tornano qui in vacanza dall’estero dove vivono e lavorano”, e dice questo perché ci sono alcune case tenute molto bene. Quale sia il passaggio logico tra la sua affermazione e le case ben tenute mi sfugge, potrebbero anche essere case per turisti, che ora non ci sono perché, a nostra differenza, invece di passeggiare, in salita, Dhermi è arroccato su una collina, se ne stanno al mare a fare il bagno nell’acqua caraibica che abbiamo visto solo dal belvedere nel passo del Llogara National Park. Se leggendo queste mie parole penserete che vi sia del sarcasmo, beh, significa che sono riuscito a rendere esattamente quel che volevo, perché nonostante Dhermi sia oggettivamente bello, ma molto, un paesino greco sputato a sud di Valona, a sud e non so quanti tornanti da Valona, camminare per Dhermi sotto forma di villaggio fantasma mi innervosisce. Parecchio. La chiesa che sta in alto, non il Monastero Bianco, anche se è pure quella bianca, è in realtà un cimitero, chiuso. Lo scopriamo arrivandoci, a caso, visto che la sola cosa indicata ovunque è un resort di lusso, che mi guardo bene dal citare. Per arrivarci, passando anche tra rovi e altro, vediamo una piccolissima chiesetta dedicata, credo, dentro c’è una icona piuttosto esplicativa tipo due metri per tre massimo, a San Michele. Carinissima, seppur un po’ cadente. Tornando, prima di andare al Monastero Bianco, constatiamo che l’altro monastero, credo dedicato a San Teodoro, è a sua volta chiusa, ma una vecchina di nero vestita, qui va ancora il lutto, le donne vestite di nero sono al terzo posto di avvistamento dopo le mucche e i bunker, ce la apre con delle chiavi che ha in casa. Dentro ci sono ovviamente icone, tante, m anche un tavolo è un paio di divani. La vecchina ci fa accendere delle candele e poi ce le fa pagare, e ci mancherebbe altro, poi mi dice, credo, che la chiesa che le indico, si chiama Sant’Elia, quindi non è il Monastero Bianco. Ce ne fottiamo, e le nostre vite nella mezz’ora che segue dipendono solo dal riuscire a capire come arrivarci, sta sopra un altro colle, lì di fianco. Non ci sono indicazioni, e qui nessuno, qui pochi Cristi che incrociamo, davvero pochi, parla italiano, solo albanese e greco (anche io, come Margherita Vicario, ho fatto il classico, ma lei è più giovane di me ma a sua differenza non ricordo nulla). Infatti, dopo aver girato a vuoto per mezz’ora, decidiamo di andare a mangiare, fanculo Dhermi.
Strada facendo, quindi tornando indietro, abbiamo visto delle taverne interessanti. Ovviamente tutte sprovviste di parcheggi nei pressi, qui sono tutte curve e tornanti. Ne scegliamo una e io lascio la macchina davanti a un garage, al massimo suoneranno col clacson. Mangiamo bene, le donne pesce, i ragazzi carne e pizza, io una Caesar Salad che è in realtà una grande insalata con maionese e crostini. Paghiamo il giusto in contanti, perché qui non accettano carte di credito (tutti accettano sia Leki che euro, che tutti cambiano 100 a 1, quindi evitate pure di cambiarli, e quasi ovunque accettano le carte, tranne nei lidi e in certe bancarelle). Con lo stomaco pieno a nessuno frega nulla del Monastero Bianco, andiamo al mare. La seconda tappa della giornata, infatti, è una spiaggia considerata tra le più belle dell’Albania, e non solo, Gjipe. Metto le indicazioni su Google Maps, che però sono ambigue. Abbiamo letto un po’ ovunque che non ci si può arrivare direttamente in auto, e che ci sono due sentieri, uno impegnativello, l’altro a livello pro, dentro un canyon che porta lo stesso nome, Gjipe Canyon. Però il navigatore mi dice che vi si può arrivare in auto. Colto dal dubbio scrivo Gjipe Beach Village, e me ne indica uno a quasi due chilometri dalla spiaggia e a solo diciassette minuti da Dhermi. Ovviamente non becco la traversa giusta, nascosta dietro una curva, quindi devo fare una classica inversione a u in mezzo a questi tornanti, poi finalmente imbocco la strada che porta a Gjipe Beach. Due chilometri e mezzo di strada asfaltata strettissima, ci passa giusto una macchina, a doppio senso. Una piazzola che ospita al massimo due auto ogni trecento, quattrocento metri. Traduzione, se incroci una strada in senso opposto uno dei due deve tornare indietro e mettersi nella piazzola. Mi capita già dopo duecento metri che sono entrato. Oggi sono davvero estenuato dalla macchina, e quando arriviamo al Gjipe Beach Parking scopriamo che è in realtà un campo di terra battuta sui due lati della strada, e che è tutto pieno. La strada, a dirla tutta, proseguirebbe oltre, ma non mi fido, e girando girando trovo un buco sotto un albero, in mezzo a qualche fratta. Pago tre euro a un ragazzo che fa il parcheggiatore e ci facciamo una discesa tra rocce, sassi, pezzi si strada battuta, pochi, e altre asperità. Circa mezz’ora. Una discesa ripida, va detto, anche ben sclerando per il ritorno, ma il mare si vede da piuttosto lontano quando si parte. Avvicinandosi, però, si capisce che è davvero il paradiso che era stato descritto. Una spiaggia bianca con un mare che alterna azzurrino, acqua praticamente trasparente, e al largo colori che vanno dallo smeraldo al blu. Ci sono molti ombrelloni senza lettini ma con sdraio, che occupano meno posti. Sono a che piuttosto attaccati tra loro, come da noi in Italia, cosa che non abbiamo mai visto qui, finora. Ci sono anche parecchie tende, anche in spiaggia, e qualche jeep, mi chiedo passate da dove. Ovviamente scendendo abbiamo visto qualche bunker, vuoi che i soldati non dovessero proteggere questo luogo incantato non si sa bene da chi?
Pendiamo ombrellone e due sdraio e stavolta paghiamo venti euro, quattro volte quanto pagato a Zvernec e il doppio di ieri, nella caletta raggiunta via mare a Karaburun. Credo che andando a sud, dove c’è più turismo estero, sarà sempre così. Qui, in effetti, ci sono parecchi italiani, e lo dico quasi con dispiacere. Andiamo a farci il bagno, anche se tra la guida, la camminata, il monastero mai visto, mi girano un po’ le palle. L’acqua è davvero cristallina, e come sempre qui è freddissima, e tale rimane anche dopo tanto che ci stai dentro. Dopo un po’ di pennichella, è pomeriggio, il sole non mena troppo e abbiamo comunque l’ombrellone, anche se le sdraio devono essere state progettate da un inquisitore che voleva testare nuove torture tanto sono scomodo, io e Marina andiamo a farci un giro perlustrativo. Scopriamo così che tutta la spiaggia è molto bella, anche se da un punto in poi gli ombrelloni sono sostituiti da caratteristiche costrizioni tipo capanna. Scopriamo che oltre che un sacco di italiani ci sono pure degli anconetani, quattro per la precisione, due coppie che ovviamente fingiamo di non vedere, dimmi tu se me li devo trovare tra le palle anche in Albania. Scopriamo che nella punta a sud, dove poi partono degli speroni di roccia che creano giochi imperiosi con le onde, ci sono delle grotticine adibite a giacigli per turisti un po’ più freak, con quasi tutte le ragazze in topless. Fatte le foto di rito, a noi, non alle ragazze in topless, sia chiaro, andiamo a perlustrare il canyon, che si vede verso l’interno, proprio a metà della spiaggia. Per arrivarci incrociamo baratti, ristornini, campeggi, e tutte queste mie parole vanno tarate col luogo, tutto molto selvaggio e freak, ripeto, catapecchie, capanne, tende da decathlon ovunque, bidoni posizionati in alto e spacciati per docce, cessi ovviamente senza acqua corrente con un catino da usare per rifare giù dopo aver cagato, raccogliendo l’acqua da un altro bidone. Tutto molto wild, ma molto figo. Gente in prevalenza giovane, ma di figli dei fiori anche più vecchi di noi ce ne sono eccome, che magari passano qui l’estate.
Poi ci sono quelli con jeepponi giganteschi con sopra il tetto una tenda ipertecnologica e davanti un tavolinetto con bicchieri da enologo, fiori dentro un vaso è tutto quel che serve per sentirsi nel lusso anche in mezzo alla natura. Alla fine della fiera credo che qui ci siano svariate centinaia di campeggiatori, più o meno fissi. Alcune delle jeep, del resto, salgono su per lo stradello che abbiamo fato noi, quindi viveri e altro arriveranno immagino giornalmente. Vedere le jeep che salgono su per quei le rocce appuntite e scoscese mi fa capire che fine avrei fatto se mi fossi fidato di Google Maps, sarei probabilmente morto coi miei familiari giù per il dirupo, o se per miracolo fossi arrivato giù la mia auto sarebbe poi diventata un monumento tipo Mutoids o Fluxus, un bunker con le ruote, impossibile poi risalire, figuriamoci. Un posto bellissimo la cui bellezza non sfuma dopo l’ora e tre quarti che passerò per i tornati per tornare a casa, dopo la mezz’ora passata a farmi lo stradello a piedi per arrivare alla macchina. Questa cosa, poi vado a godermi il fresco del terrazzo senza balaustra, se non sono caduto giù da un tornante o dallo stradello non sarà certo un terrazzo a spaventarmi. Questa cosa mi fa venire in mente quando, ormai ventiquattro anni fa, ho cominciato a scrivere di viaggi. Avevo da poco pubblicato la prima raccolta di racconti, furibonde giornate senza atti d’amore, che poi era anche il mio primo libro. Era uscito con una introduzione di Nanni Balestrini e la critica ne aveva parlato abbastanza bene nonostante fosse, va detto, piuttosto pretenzioso. Mi arriva una telefonata, ancora le mail non era così diffuse, figuriamoci i messaggi, di tale Franco Berton Giachetti, caporedattore di Gente Viaggi, che mi propone di scrivere un pezzo per loro, sui Sibillini. Ha letto che sono marchigiano e la cosa l’ha stuzzicato. Scrivo un pezzo che si intitola L’ascesa dell’asceta, primo di non so più quanti reportage scritti per loro, poi diventerò loro prima firma, e poi anche per altre riviste, negli anni ho ancora pubblicato una ventina di libri di viaggio, tra reportage e guide. Il focus di quel mio primo pezzo, ammetto fortunato, è che chi racconta che la fatica è fondamentale per arrivare alla conoscenza mente. Perché la fatica è faticosa e basta. In quell’occasione, infatti, non arrivai al Lago di Pilato, perché mi sono stancato prima. Me ne dovrò ricordare la prossima volta che stiliamo il programma per una vacanza, niente spostamenti oltre i quindici minuti, possibilmente in auto. Tanto Gjipe ormai l’ho vista. Se proprio non riuscite a seppellire il mio cuore sul Monte Conero, venite a seppellirlo qui, ma affittate una jeep, figli miei.