Giorno sette, Zvernec e Llogara National Park. È l’ora che anticipa di poco il tramonto. Il sole sta calando dietro la penisola di Karaburun, proprio di fronte a Valona e alla casa dove risiediamo per questi sei giorni. Sto seduto sul terrazzo, quello senza balaustra, e scrivo queste parole. Farlo guardando il sole che cala dietro il promontorio verdeggiante dove domani andremo con la barca di Tony è un privilegio, me ne rendo conto. E mi rendo conto che scriverlo ammettendo di saperlo non è un’attenuante, ma quando il 27 del mese vi trovate lo stipendio nel conto corrente non sento tutte queste ammissioni di privilegio, quindi evitate di frignare. Anche perché invece che scrivere potrei starmene qui a sorseggiare una birra fresca, come sta in effetti facendo Marina, a un metro da me. Oggi è stata una giornata magnifica, come questo spettacolo che mi si para di fronte, il che attesta due verità assolute: sette ore di guida in Albania farebbero a pezzi il sistema nervoso del Dalai Lama, non lo avessero già fatto i social per la faccenda di lui che si fa succhiare la lingua da un bambino a beneficio di smartphone, e poi che il buio, e in questo tutta l’iconografia horror ci ha detto molto, rende tutto peggio di come è. Perché è vero che non siamo sul lungomare di Valona, che la casa è in culo ai lupi e che arrivarci ieri è stato una gara ostacoli (alla fine siamo arrivati in casa alle 21 e 30), ma la vista da quassù è incredibile, arrivarci di giorno non è poi così complicato, e qui intorno c’è in realtà una sorta di villaggio, solo che ieri sera non ce ne siamo accorti, complice forse anche il fatto che quando ci siamo affacciati per il blackout, in effetti, era tutto buio, ovviamente. Certo, c’è un cimitero sotto casa, e di notte si sentono cani e galli, ma è davvero uno spettacolo unico, e ne valeva la pena. Del resto, dopo trentacinque anni e mezzo insieme, stamattina con Marina ci siamo limitati a far finta di niente, questo nonostante io, maledetta insonnia, non abbia chiuso occhio e nonostante ieri neanche ci siamo salutati. Stamattina, del resto, ci siamo alzati col profumo del caffè, visto che qui c’è la moka che noi ci siamo scordati a casa (il caffè lo abbiamo invece portato), o meglio, gli altri si sono svegliati con quel profumo, perché come sempre il primo a alzarsi sono stato io, doccia e poi preparare la colazione. Il caffè, va detto, faceva abbastanza cagare, credo perché il gas non funziona e ho dovuto usare le piastre elettriche, che sono disumane nel gestire il calore, e del resto prima di prepararlo ho dovuto scrostare dalla parte della moka dove va messa l’acqua una guarnizione che si era fusa con la base, evidentemente qualche minus habens pensava che andasse posta li. Fatta colazione ci siamo incamminati verso Zvernec, che è il promontorio subito a nord di Valona, nei pressi della laguna di Narta, dove si trova anche il monastero bizantino intitolato alla Madonna.
Attraversare Valona di mattina è altrettanto incasinato che attraversarla di sera, anche se il traffico corre prevalentemente nella direzione opposta. Solo che ci sono strettoie, macchine lasciate in doppia fila in sosta come niente fosse, rotatorie che vanno contro ogni logica, per cui i quaranta minuti indicati da Google Maps diventano un’ora. Usciamo da Valona incamminandoci per una strada isolata, sterrata, stranamente senza asini o mucche, solo capre e pecore (ieri notte quando stavamo arrivando all’hotel dove avevamo appuntamento con la fantomatica Kostantina un mulo ci ha tagliato la strada nel buio della notte, buttandosi ottimista in mezzo al traffico). Giunti a quelli che il navigatore indica come due minuti, su una strada sterrata, cominciamo a scorgere sia la laguna che l’isoletta che ospita il monastero. Lavinia, sempre lei, santa subito, mi ha detto che è una meta imperdibile, e che per arrivare sull’isola si percorre un suggestivo ponte di legno. Tutto vero. Parcheggio a fianco della laguna, compiendo una manovra difficile e inutile, poi scoprirò che più avanti c’è uno spaziale praticamente vuoto, e ci dirigiamo verso Santa Maria. Mentre scrivo, lo dico ai dipendenti pubblici in ascolto, il cielo qui davanti a me, al tramonto, ormai, è rosso sangue, come il mare sottostante. Tornando a Santa Maria, il ponte in legno, come una metafora della vita, non porta all’isola del monastero in linea retta, ma facendo diverse curve, come a dare tempo a chi ci vuole andare di avvicinarsi a tanta bellezza, non solo terrena. In effetti è tutto spettacolare, anche il solo vedere granchi e pesci nella laguna, gli aironi in lontananza, giusto qualche bottiglia qui e là a ricordarci che siamo uomini. Arrivati sull’isoletta, superata una palazzina rosa, credo adibita a ospitare qualche viandante, c’è questo gioiellino di chiesa bizantina, in miniatura. L’esterno è in muratura, l’interno presenta tutta una serie di icone, ma il plus è dato da una porticina che divide l’altare dal resto della chiesa, parliamo di una struttura piuttosto piccola, nel complesso, conterrà poco più di venti persone. A far scorgere altare e croce una finestrella lasciata aperta. Tutto molto suggestivo. Facciamo ancora un giro nei dintorni, tra ulivi e altre piante mediterranee, poi ripercorriamo il ponte a ritroso. Ci colpisce qualcosa che sta avvenendo su una piattaforma che sta in una deviazione del ponte, sulla destra mentre si accede all’isola, vi ho detto della metafora della vita, ovvio che c’è una deviazione che vi porta a un vicolo cieco. Lì ci sono una ventina di persone vestite di bianco che lanciano palloncini bianchi in aria, fiori bianchi e rossi in acqua. Pensiamo a una festa. Che so?, un matrimonio, non fossimo in agosto una prima comunione. Invece dei tipi di qui che stanno camminando noi, tipi di qui, ci spiegano che è un funerale. Infatti ora tutti stanno abbracciando forte una donna più giovane di me e Marina. Scena molto coinvolgente, per questo smettiamo dj guardare e andiamo oltre, come ora io devo fare col tramonto, altrimenti non riesco a scrivere.
Torniamo alla macchina e andiamo a ritroso, con l’idea di fermarci in a una delle spiagge che andiamo visto arrivando. Ce ne sono tante indicate con cartelli lungo la strada, alcune lungo una gigantesca pineta, altre dopo. Seguendo una logica stringente, prendiamo la strada del primo cartellone, non troppo distante dalla strada che porta a Santa Maria. Il cartello lungo la strada dice che c’è una Plazhi, cioè una spiaggia, un ristorante è una piceri, cioè una pizzeria. Davanti a noi la macchina di un altro straniero, credo bielorusso, che guida un macchinone gigantesco a cinque all’ora, per paura che si rovini sulla strada sterrata. Vorrei scendere e rigargliela con la chiave. Giunti di fronte al Zvernec Hotel, lui sbaglia ingresso, io lo supero e prendo un posto comodo per parcheggiare. Non sappiamo se il lido sia aperto anche a chi non pernotta nell’albergo, ma ci piace e proviamo a chiedere. Ci dicono, ovviamente, che si può affittare ombrellone e lettino, e che il ristorante è sempre aperto. Andiamo del tipo che gestisce la spiaggia e ci dice che ombrellone e due lettini vengono cinque euro al giorno. Siamo sul promontorio di Zvernec, la laguna di Narna è alle nostre spalle, qui il mare è limpido e si affaccia su una collina verde in cima e di rocce tagliate tendenti al giallo alla base. Uno spettacolo unico. A cinque euro per ombrellone e due lettini, roba che a PortoNovo, dove andiamo nella mia città natale, ci prendo un caffè e una polacca, la tipica brioche locale, omaggio ai polacchi che hanno liberato Ancona dai nazifascisti. Neanche il tempo di appoggiare i teli da mare sui lettini, constatare che qui io potrei addirittura passare per sottopeso, e ci fiondiamo in acqua. Acqua che qui è fredda, non so perché ci si avvicina sempre di più al Mediterraneo e si è meno sull’Adriatico. L’acqua è anche più alta che altrove, per dire, a Gjeneralit ho dovuto fare il bagno seduto letteralmente col culo sulla sabbia per potermi bagnare sopra la cintola. Dopo un bagno di oltre un’ora, durante la quale Francesco riesce a perdere il suo pallone (ogni nostra vacanza vede Francesco, fissato col calcio, perdere un pallone), arriva il momento del relax, cui segue il pranzo nel ristorante dell’albergo. Ordiniamo, e da questo momento parte un siparietto molto albanese. Aspettiamo circa quaranta minuti senza che nessuno ci caghi, nonostante i camerieri corrano come pazzi servendo tavoli su tavoli. Quando chiediamo al nostro cameriere a che punto è il nostro pranzo finge di saperlo, dicendo che sta per arrivare. Passa altro tempo e due camerieri cominciamo a insultarsi pesantemente davanti al bancone. Uno è palesemente il figlio del titolare, che lo zittisce, dando sostanzialmente ragione all’altro. Passa altro tempo e mi alzo per chiedere a lui, il titolare, ragioni del nostro pranzo ancora non arrivato, e lui mi dice, con sicumera, sei minuti, scusandosi per il clamoroso ritardo. In effetti il pranzo arriva dopo sei minuti, fettuccine ai frutti di mare per me e Chiara, frutti di mare che sono in realtà granchi, calamari e seppie, ma davvero ottimo, frittura di pesce per Marina, e pollo e patatine per i maschi. Mangiamo velocemente, perché vogliamo andare altrove, e quando vado a pagare il titolare, scusandosi ancora, mi racconta di aver vissuto ventidue anni a Bolzano, tornando solo per l’estate. Poi nel 2009 ha visto per la prima volta questo posto, fino a quel momento di proprietà dell’esercito. Dice di essersene subito innamorato, perché in prima era tutto il verde della collinetta che sovrasta la spiaggia fiorisce, regalando colori bellissimi. Mi racconta di aver comprato il terreno coi suoi due fratelli, pagando ottanta euro al metro quadro il terreno dove sorge albergo e ristorante, e cento quello della spiaggia (cifre che mi spingerebbero a venire a fare l’albergatore in Albania, ma che secondo lui devono essere spropositate, da come ce lo dice). Racconta di aver dovuto dare delle mance per comprare la terra, intendendo delle mazzette, e dice anche di aver però costruito tutto e non avere più debiti con le banche. Poi, però, aggiunge che da quattro anni ha lasciato l’Italia, perché uno dei suoi due fratelli è morto, e l’altro da solo non poteva mandare avanti l’attività, la foto gigantesca del fratello alle spalle del nostro tavolo diceva già molto. Nel raccontarci questo continua a chiederci scusa per il ritardo, nonostante sia io che Marina avessimo spiegato che non era un problema, offrendoci anche un caffè, va detto meno buono di quello di Korce. Salutiamo e torniamo in spiaggia il tempo di raccogliere le nostre cose e andare alla macchina, direzione Llogara National Park. Naftis, la nostra Virgilio, mi ha suggerito di attraversare il Llogara National Park quando scenderemo a Ksamil, indicandomi una calletta semideserta dove fare il bagno, e raccomandandosi di fermarsi a visitare il grande bunker che si trova lì sopra. La cosa dei bunker è singolare, perché in un paese che evidentemente non vuole lasciare traccia del suo passato comunista, due sono i segni evidenti sotto gli occhi di tutti: i bunker che si trovano praticamente ovunque, e le Mercedes Benz che intasano le strade. Queste ultime erano i soli segni di lusso permessi durante la dittatura, concessi per altro ai soli comandanti dell’esercito, quindi per gli albanesi sono diventati gli status symbol del potere, come del resto anche le altre auto di lusso. Ma di Mercedes Benz, spesso usate, immagino anche rubate, ce ne sono un fottio, e ho scoperto che su settecentomila auto immatricolate in Albania, duecentomila sono Mercedes, per dire, riguardo i bunker, alcuni sono devastati, a pezzi, altri sono stati riciclati, colorati, resi simpatici, come spesso ci è capitato di vedere con le facciate delle fabbriche dismesse, rivitalizzate da murales. Vedere bunker in zone che, almeno oggi, non mi sembrano affatto strategiche, tipo in mezzo al nulla, uno di fianco all’altro, su un lungomare o in mezzo alla campagna, mi fa venire sempre in mente l’ultimo giapponese sull’isola deserta cui nessuno ha detto che la guerra è finita, chissà se è successo a qualche soldato albanese nel 1991, dopo la caduta del comunismo.
Visto il tempo che impieghiamo a salire al Llogara National Park, dubito che passeremo di qui andando a Ksamil. Lì ci staremo tre giorni, se uno dovremo passarlo dietro un camion che arranca in prima su una salita col 10% di pendenza temo ci sarà poco da divertirsi. Il parco, però, merita. Molto. Siamo in montagna, una montagna vera a pochi passi da Valona. Il passo ho letto che tocca quota mille. Noi facciamo una tappa al Tourist Village di Llogara, che in realtà è un resort con tanti bungalow triangolari, dove però si può entrare per dar da mangiare ai daini. I daini, per la cronaca, sono quei cervi maculati tipo Bambi, carini da piccoli, molto simili ai cervi, quindi con le corna, da adulti, quindi sempre carini ma anche vagamente inquietanti. All’ingresso la tipa che ci ha fatto entrare ci ha venduto per cinquanta centesimi delle buste con del mais tostato, da dare agli animali, e gli animali, un daino piccolo, e due adulti, sono in effetti lì, subito dopo l’ingresso. Passare un’oretta a provare, prima, a farsi calcolare dai daini, e poi a tenerli a distanza perché ormai hanno mangiato tutto il nostro mais è un esercizio zen che consiglierei anche al Dalai Lama, specie dopo la faccenda del farsi succhiare la lingua dal ragazzino. I nostri figli ne sono entusiasti, specie Chiara che da grande vorrebbe fare la zoologa o la veterinaria, Chiara che infatti dice che da oggi il daino è il suo animale preferito. Risaliamo in auto, mentre i daini sono vessati da altre famiglie coi figli, e continuiamo a salire. La tizia che ci ha venduto il mais ci ha detto che trecento metri dopo il Village c’è un ufficio informazioni che ci spiegherà dove andare a vedere altri animali. Mai fidarsi di chi ancora non si conosce bene, specie in Albania, dovrei ormai imparato a ripetermi. Invece ci fermiamo vicino al centro informazioni, che però risulta chiuso, e dalla polvere che si trova sui vetri direi pure da parecchio, ennesimo segno di una sciatteria inutile e anche nociva. Chiediamo quindi informazioni a un ragazzo che vende miele, qui è pieno di gente che vende miele al bordo della strada, in giro si vedono un sacco di casette delle api, e il tizio ci dice che a cinque minuti c’è un belvedere dove si possono fare belle foto. Ci caschiamo di nuovo e soprattutto incappiamo dietro l’ennesimo camion arrancante, che per altro in un paio di occasioni rischia di far fuori la macchina subito dietro di lui, e davanti a noi. Non cinque, ma diversi minuti dopo arriviamo al belvedere, che è in effetti un vero belvedere. Da qui si capisce bene che Karaburun, dove andremo domani con la barca di Tony è un promontorio e non un’isola, ora che me lo vedo di fronte, sul terrazzo di casa, il sole ormai tramontato è il cielo che sembra un fazzoletto intriso di sangue, ma prima non mi era così chiaro. E si capisce pure come l’Albania sia una terra ricca di paesaggi differenti, monti, colline, mare, mare con sabbia, callette con le rocce, come quelle che costeggiano la strada che va da Valona portano a Redhime, davvero spettacolari. Si capisce pure che quassù fa un freddo becco, infatti il tempo di fare qualche foto, farsi il selfie di ordinanza che eccoci di nuovo in auto, difetti a casa. Prima una sosta in uno di quei negozietti che si trovano lungo la strada che qui chiamano market, che in realtà sono piccoli alimentari gestiti da banditi senza passamontagna che ti fanno pagare qualsiasi cosa caro come il peccato (caro anche per l’Italia, intendo, non solo per qui). Stasera ceniamo a casa, che domani dobbiamo alzarci presto, alle nove e venti dobbiamo essere al porto da Tony. Anzi, è pronto, il cielo si è fatto buio e cominciano a spuntare le prime stelle, direi che per oggi è davvero tutto.