Giorno tre, Durazzo, piove, governo ladro. Non ho idea se anche da queste parti sia divenuto comune parlare di cambiamenti climatici, e di cosa si potrebbe e soprattutto dovrebbe fare per fermarli. Così, a prima vista, direi di no, visto che, per essere spicci e pragmatici, ho come l’impressione che l’idea anche basilare di fare la raccolta differenziata dei rifiuti non sia mai stata neanche ventilata, che l’uso della macchina sia smodato e spesso a bordo di carrette non proprio ecocompatibili (si, qui o si viaggia in Mercedes o Audì, o a bordo di auto che vanno a olio di colza, arrugginite e inquinantissime) e soprattutto che, nei paesi che hanno vissuto a lungo sotto dittatura, quindi in estrema povertà, e che a fatica stanno alzando la testa le priorità sono più basiche, tipo consentire a tutti di avere il minimo indispensabile, figuriamoci se ci si può occupare dello stato di salute del pianeta. Non ho quindi idea se qui si parli tutti i giorni, spesso tanto per parlare, di cambiamenti climatici, ma so per certo che i cambiamenti climatici arrivano anche se non ne parli. Stamattina, infatti, ci siamo alzati col cielo nero, come predetto da 3Bmeteo. Niente pioggia, quindi colazione in terrazzo, ma che sarebbe andato a piovere era chiaro. Infatti tempo mezz’ora e è scoppiato un nubifragio di quelli che mandano ai pazzi Giambruno e Zichichi, addirittura in assenza di scie chimiche, lo dico per Red Ronnie. Vento fortissimo, acqua a non finire, tuoni e fulmini. Abbiamo fatto giusto in tempo a ritirare gli asciugamani da mare e i costumi, messi a stendere fuori, e chiudere le finestre, che è venuto giù di tutto. A chiedere le finestre ci hanno pensato i nostri figli, mentre noi ritiravamo i panni, infatti hanno lasciato fuori i cuscini delle poltrone, che immagino ora peseranno centoventi chili, imbombiti come sono di pioggia. Pioggia che ci è venuta a trovare in casa, passando da una fessura sul caminetto che si trova in sala, caminetto sovrastata dalla testa, giuro, di un piccolo cervo, anche sul fronte del politicamente corretto credo che da queste parti ci siano diversi passi in avanti da fare. Due piccoli rivoli, ai lati della cappa del camino, anche se stavolta non mi sentirei di dare colpe all’incuria, almeno non a quella dei padroni di casa (ieri rientrati abbiamo trovato la tenda della camera dei ragazzi in terra, i due fischer che reggevano uno dei due estremi del tubo della tenda staccati dalla parete, dove ora sono visibili due piccoli crateri. Fatto cui ho messo una pezza, incastrando il tubo al muro bloccandolo proprio con ferro che avrebbe dovuto reggerlo, almeno i ragazzi non devono dormire senza un riparo dal buio e dai dirimpettai, e questo è parte dell’incuria dei padroni di casa, credo).
I nostri programmi della giornata sono andati a puttane, e lo sarebbero andati in parte lo stesso, perché scopriamo che di sabato in Albania i musei sono chiusi, e che comunque alcuni erano chiusi a prescindere, per ragioni che ignoriamo, immagino restauri o altro. Quindi niente Villa di Zog, padre padrone della nazione nella prima metà del Novecento. Niente museo archeologico, chiuso a tempo indeterminato per restauri. Niente museo etnografico, sia a Durazzo che a Kavajes, è sabato, mica si lavora di sabato, santo comunismo. Niente di niente. Sulle prime azzardiamo di farci due ore di auto e andare al castello di Kruja, Croia in italiano. Bello,a vedere Google Immagini, e con un museo etnografico aperto, ma poi è appunto arrivato il diluvio, che fortunatamente ci ha colto ancora a casa. Per altro dalla finestra vedo il parcheggio dove ho lasciato la macchina, e scopro che è un enorme lago di fango, quindi questa fretta di andarci non ce l’ho. Resta da ammirare la zona dei resti romani, il Foro e le terme, e poi anche i resti del castello, qui a Durazzo, anzi, lì a Durazzo, ma sono posti all’aperto, quindi dobbiamo almeno aspettare che smetta di diluviare. Nel pomeriggio volevamo andare a Plazhi, che significa spiaggia, Portez, e rimanere a mangiare al mare, suppongo andremo a vederla dalla macchina, come innamorati in camporella (orribile definizione nordista, da noi si dice infrattarsi).
Lo so, mi sto lamentando un po’ troppo del mood albanese, quasi che non mi stia trovando bene. No, niente di più lontano dal vero, è che non sottolineassi le differenze, marcate, di comportamento, faticherei a far capire cosa ci si trova di fronte da queste parti. Prima di partire ho avuto modo di parlare di Albania con un caro amico che vive da anni e anni a Milano, lì ha trovato un gran bel lavoro e sta crescendo i suoi figli con sua moglie, a sua volta albanese. Mi ha detto, dopo avermi ovviamente decantato le bellezze locali, aver sottolineato la bontà del cibo, le bellezze naturali e anche indicato una vitalità che non sempre è riscontrabile in Italia, se si riferiva al circo del lungomare, va detto, gli consiglieri di farsi un giro nei nostri lungomare, specie del sud, per ricredersi, dopo tutto questo mi ha detto un paio di cose riguardo il come si viveva durante il comunismo. Con parole cariche di critica, certo, ma non solo. Ha detto che durante il comunismo tutti avevano le stesse cose, poche, ma tutti uguali, e che l’avere d’ufficio un lavoro, passato dallo stato, non spingeva nessuno a sforzarsi per fare carriera, né tantomeno impresa. Quindi tutto era fermo. Comodo, povero, e fermo. Senza comunismo ci sono più possibilità, nonostante la scarsità di risorse, è solo chi ha “fame”, intesa come cazzimma, può crescere. Lettura interessante di una epica sicuramente oscura, dittatoriale, violenta oltremisura, di cui non si vede traccia da nessuna parte, né indicata con disprezzo, né tantomeno con nostalgia. Repulisti totale, se non per certi segni come il bunker lasciato in una spiaggia per altro del tutto perfetto. Si sarà capito, fuori ancora piove, e di uscire, di affrontare la palude di fango del parcheggio, dove dovrei comunque arrivare senza uno straccio di riparo (ho due ombrellini di quelli da borsa, ovviamente in auto) non ho alcuna voglia. Santo Wi-Fi che permette ai ragazzi di passare il tempo. Io mi gingillo sui social, dove due sono le notizie che animano la mia bolla, da una parte Concita Di Gregorio che per bullizzare sei ragazzi, di cui due influencer tedeschi, che per farsi un selfie hanno distrutto una statua a Viggiù non trova di meglio che paragonarli a ragazzi con deficit cognitivi, usando un linguaggio che fa rimpiangere il “mongolino d’oro” dei tempi in cui ero giovane, incredibile tanto più se si pensa che abbia quattro figli e in teoria sia una giornalista anche di valore, dall’altra c’è la assessora alla cultura della mia città natale che per raccontare ai giornali locali le sue scelte di budget, che hanno portato al taglio di due eccellenze come il Kum di Massimo Recalcati e La Mia Generazione di Mauro Ermanno Giovanardi, a suo dire per gli zeri euro lasciati in cassa dalla giunta precedente, in realtà per aver deciso di dare alla cultura la metà della giunta precedente, parla di sé definendosi “ebrea col braccino corto”, aprendo un baratro che non lascia presagire niente di nuovo, lo dico conscio di chiudermi alle spalle per l’ennesima volta la possibilità di lavorare anche in Ancona, ma leggere tutto questo mi fa davvero venire voglia di andare al parcheggio a tuffarmi nel fango, magari in compagnia dei topi, almeno sarei in buona compagnia.
Comunque, dopo pranzo, miracolosamente smette di piovere, in barba alle previsioni che davano pioggia fino a domani. Quindi decidiamo di partire per Durazzo, per vedere quel che non è chiuso, cioè i musei. Prendo la macchina dal parcheggio fangoso, e per la prima volta non vedo il parcheggiatore, onnipresente, che mi ha detto di fare turni di venti ore al giorno. Imbocco una sorta di superstrada, alla quale si accede da un sentiero sterrato che attraversa una rotaia, così, senza un segnale o altro. Anche in autostrada, ho visto, autostrade gratuite, si può accedere da strade di campagna, imbocchi che danno su fabbriche o case private, tutto vagamente autogestito. Appena entrato in superstrada, chiamiamola così, noto una buca profondissima e larga altrettanto, dentro la quale qualcuno ha infilato a forza la gomma di un camion, con il chiaro intento di salvare il mozzo delle auto che sbadatamente dovessero caderci dentro, trovata geniale, certo, ma non credo molto in regola con le leggi della manutenzione stradale, sempre che ne esistano. Lungo il tragitto, infatti, incrociamo cassonetti circondati da cumuli di immondizia, fermate del bus riconoscibili solo per la presenza di persone in attesa, e auto parcheggiate con le doppie frecce perché il padrone è sceso a pisciare. Evviva la scuola guida. Arriviamo a Durazzo e, sorpresa, è non solo molto bella, ma anche molto città. Parcheggiamo a due passi dalla moschea Fatih, lungo un viale alberato con bar e negozi per turisti, proprio a due passi anche dal ponte che sovrasta la strada di accesso al lungo mare, con una statua di una qualche divinità marina, che in realtà assomiglia a Don Chicotte e a pochi passi dalla Torre veneziana, parte meglio tenuta del castello di Durazzo, per il resto prevalentemente mura, la statua di un ennesimo eroe locale. Alle spalle della statua, tenendo a sinistra lungomare e quindi mare e a destra la Torre e poi il vialetto che porta alla Moschea, c’è un palazzo sventrato è pieno di immondizia, chiaramente usato come squat da qualche discorato. Così, a due metri dai principali monumenti cittadini. Andiamo a vedere la moschea, meno bella di quella di Tirana, ma molto affascinante, e poi saliamo verso l’anfiteatro Romano, una Arena che un tempo ospitava fino a 18mila spettatori erotta nel secondo secolo avanti Cristo e, seppur cadente come quasi tutti gli anfiteatri che non siano il Colosseo o l’Arena di Verona, se penso a quello di Ancona mi viene da piangere, dotato di un suo fascino discreto, oltre che ottimo per i turisti americani, in effetti presenti. Tommaso è stato coinvolto da un solitario turista giapponese in una sorta di servizio fotografico, Tommaso nei panni del fotografo, probabilmente l’unico giapponese incapace di farsi i selfie. Unica soddisfazione, credo, il culo di una ragazza americana che, intenta a provare a guardare dentro una buca che dava nelle segrete dell’anfiteatro, ci ha fatto ampio dono delle sue terga in cinemascope. Usciti da lì siamo andati a farci un giro sul lungomare, davvero affascinante, con questo misto di wannabismo e anche un minimo di decadenza esibita. Si parte con un piazzale dove si trova una sorta di statua che riproduce una gigantesca coda di sirena, per poi proseguire verso nord, dove si trova una sorta di grande pontile che ospita locali e negozi, la spiaggia che congiunge questi due spazi è piena di barchette e pedalò andati a male tenuti li d qualcuno che evidentemente li usa. Poi si prosegue verso una costruzione semipirqmidale, sul mare, con scalinate tipo Chicheniza. Qui in Albania hanno una fissa con le piramidi, è indubbio. Con le piramidi e col lasciare i cani in strada, perché solo a Durazzo ne conteremo una trentina, molti lungo questa passeggiata. Salire sulla piramide, non troppo alta, è scomodo, perché i gradini sono sfalsati, ma l’aria oggi è fresca e si cammina con piacere. Almeno finché un ragazzino di circa dieci, undici anni, la tipica aria da maranza che qui è della maggioranza dei giovani, non decide di deliziarci con una sequela di rutti da far paura. Ai piedi della piramide si trova una grande statua che è in sostanza il tronco di una donna con grandi seni e depilata. Senza testa, gambe o braccia. Inizia a piovere, quindi ce ne torniamo indietro sguainando i nostri ombrelli, nell’incredulità imbarazzata di tutti quelli che incontriamo, manco avessimo applicato le rotelle a una Harley Davidson. Ci fermiamo per prendere un dolcetto in una pasticceria strepitosa che si chiama, inspiegabilmente, Pellicano, e che si trova a due passi dalla Torre veneziana, pagando per quattro dolci al tavolo e una acqua tonica ben undici euro, poi andiamo a prendere magneti e souvenir in negozietti per turisti. Siccome ieri a Tirana ho comprato la sciarpa della nazionale di calcio albanese, come faccio un genere quando viaggio, Francesco che è malato di calcio si è voluto prendere il completo da calcio degli stessi colori. Chiara ha optato, per ora, per una collanina molto delicata, come è del resto lei. Saltiamo in auto e, complice il fatto che ha nuovamente smesso di piovere, ci dirigiamo ancora verso nord, verso Plazhi Portez, che stando alle nostre ricerche milanesi, più di Marina che mie, in fase di planning giornaliero, è una delle spiagge più suggestive della zona. Andiamo a vederla, non abbiamo con noi i costumi e si è fatto tardi, ma pensiamo ne valga la pena. Uscendo da Durazzo vediamo via via sempre maggiore povertà, sempre più cani abbandonati, e poi inizia la parte folkloristica, introdotta però dal tocco semitragico di un cimitero dalle mura scalcinate e malconce. La strada si fa sempre più dissestata, e cominciano a comparire mucche, così, in mezzo al cammino. Mucche e cani, e bunker, qui e là. Uno, gigantesco, sta sul bordo del mare, fornendo uno spettacolo suggestivo. Intorno ci sono cisterne di greggio, tante, e bunker che spuntano dal mare. Per strada tante buche piene di fango, ha piovuto molto anche qui, ovviamente, e le famose mucche. Plazhi Portez è la punta di un promontorio subito dopo il porto commerciale di Durazzo, che si chiama Porto Romano. Ma non ci si può arrivare come pensavamo, perché la strada si ferma con una sbarra che introduce a un terreno dell’esercito e che a sinistra regala una unica è possibile via di fuga, verso l’alto,ma dentro un campeggio ovviamente privato. Fingiamo di non aver capito, entriamo, parcheggiamo e andiamo in cima, dove si trova il ristorante del camping, a ammirare uno spettacolo spaziale, natura selvaggia che fa da cornice al mare, pulito nonostante la non troppo lontana raffineria.
Da quassù si vede anche la caserma, spoglia, povera, con quella che un tempo doveva essere una pista di atterraggio per aerei militari, la solita quantità spropositata di bunker, quelle costruzione circolari con la feritoia per i mostra, e poco altro, uno solo soldato a presidiare la zona. Risaliamo in auto, e strada facendo, verso casa, troviamo ancora mucche e cani. Una, di mucca, pascola sotto l’insegna di uno chalet sul mare, gli ombrelloni di paglia alle sue spalle, come in una immagine postmoderna. Superata la zona dissestata Google maps ci fa girare per strade nuovissime, che costeggiano un gigantesco spazio dedicato allo sport, salita per arrampicate, campi da basket e da calcetto, tanti posti per le auto, tutti vuoti, ancora non inaugurato o semplicemente un flop. A pochi passi, tanto per mantenere alta la miscela presente, una famiglia di maiali corre per un campo, tra mucche e pastori in lontananza. L’Albania mi sta entrando nel cuore. E lo fa giocando sui contrasti, direi che se lo può permettere. A cena tradiamo il ristorante dell’hotel Dollari per il suo vicino Shkodra. I prezzi sono simili, ma le porzioni sfamerebbero Gulliver a Lilliput. Carne buonissima, musica dal vivo come sempre discutibile, con un repertorio che va da When The Saints Go Marchin in a Bella Ciao, un sax che sembra quello del Lello di Enzo Savastano spalmato su tutto. A convincerci a mangiare qui il padrone, che mentre ci camminavamo davanti, rientrando da Plazhi Portez, ci ha attaccato bottone. Durante la cena tornerà da noi, e ci racconterà di aver aperto il ristorante sopra nel 2003, col fratello, ma che le cose girano dal 2014, quando è cominciato un po’ di turismo italiano. Lui vive da una vita a Reggio Emilia, infatti parla con accenti o Emiliano, per la precisione a Campegine, e torna qui a aprile e se ne ritorna in Italia a ottobre. Prima lavorava in fabbrica, ma quando le cose hanno cominciato a girare male ha preso il suo tfr è quello della moglie e lo ha investito qui, col fratello. Un terzo fratello non ha mai lasciato l’Albania, dice, è quello che ora suona la batteria, aggiunge. Ci dice che Albania e Italia d questo punto di vista sono lontanissime. Che qui a nessune viene in mente di lavorare come in Italia, per arrivare a altro, crescere, mettere su famiglia, progredire, studiare, viaggiare. Proprio non è mentalità. Dice anche che se fai notare a un lavoratore che lavora male, sottolineando che lo paghi, quello se ne va. Dice che se non tieni d’occhio chi lavora per te, dopo un po’ li vedi fuori che fumano. Racconta che quando era in fabbrica entrava un’ora prima e non faceva la pausa pranzo, per lavorare. Qui non collo farebbe nessuno, aggiunge, ma su questo non credo che sia lui quello dalla parte giusta del discorso. Comunque dice che è difficile far capire il valore del lavoro a chi è nato e cresciuto qui, tempo sprecato. Non ha mai citato il comunismo, come invece ha fatto con me il mio amico in Italia, ma credo sia sempre il medesimo racconto, fatto da un punto di vista lievemente diverso. Chissà se prima o poi guaderemo anche al capitalismo come a un sistema fallimentare, mi chiedo a stomaco pieno, in vacanza in un paese più povero, mentre passeggio sul lungomare frequentato prevalentemente da slavi, macedoni, kossovari molto ben vestiti che neanche si accorgono della piccola bambina che dorme in terra col papà, che mentre la gente passa indica la gobba di sua figlia.