Il compito di un giornalista è quello di informare, giusto? Anche quando si tratta di tragedie come le morti sul lavoro. È quanto stavo facendo ieri a Marcianise (Caserta) dopo l’esplosione dell’azienda di smaltimento rifiuti Ecopartenope che ha causato tre decessi e un disperso. Eppure, nonostante il mestiere di giornalista sia così importante, anche e soprattutto in momento così drammatici, viene sempre più disprezzata da molti. Invece, quando si parla di gossip, di televisione, di leggerezza, il giornalista torna a essere considerato. Ma perché se si tratta di questioni serie, come ieri, accade qualcosa di assurdo come l’essere stata aggredita da una folla inferocita proprio di fronte all’azienda mentre erano in corso le ricerche di un disperso e le cause dell’esplosione non erano ancora chiare? Ecco perché ero andata lì: per documentare un’esplosione che aveva causato tre morti e un disperso. Una tragedia che tocca un tema purtroppo attuale e drammatico: quello delle morti sul lavoro. La struttura si trova in una zona industriale. All’ingresso della via, in lontananza, si scorgeva già una schiera di giornalisti con videocamere, aste, microfoni. Tutta un’attrezzatura che io non avevo. Le mie intenzioni, però, erano chiare, come ho chiarito anche a chi me l’ha chiesto: capire le dinamiche dell’incidente e documentarle con l’unico mezzo che avevo, il cellulare. Mi sono avvicinata ai cancelli. All’interno si intravedeva un’ambulanza, con operatori e forze dell’ordine. L’aria era tesa. Ho iniziato a riprendere, con l’idea di parlare con qualcuno per farmi spiegare la situazione. Intorno a me c’erano parenti, amici, colleghi delle vittime. Ma a un certo punto, una ragazza lì accanto, forse scambiandomi per una curiosa, ha cominciato a rivolgermi degli insulti. Ho risposto che stavo solo facendo il mio lavoro. Ma lei si è alzata e si è avvicinata sempre più minacciosa. Un ragazzo mi ha afferrata per allontanarmi. Ho cercato di nuovo di spiegare che ero una giornalista, ma la ragazza, in dialetto, mi ha urlato: "E vai a fare i chinotti". Poi ha continuato: "Puttana, puttana". Da quel momento, la situazione è precipitata. Tanti altri si sono avvicinati: correvano tutti verso di me, insultandomi ("troia", "stronza", "giornalista di merda") e minacciandomi ("ti spacco la faccia"). Qualcuno ha cercato di mettermi le mani addosso (e solo per l’intervento delle forze dell’ordine non è successo). Ero allibita. In particolare una signora cercava di afferrarmi da dietro con una rabbia sconvolgente.

Un uomo sulla sessantina mi si è avvicinato, arrabbiato ma con le mani dietro la schiena, dicendo: "Vedi, non voglio alzarti le mani". Sosteneva che non mi rendevo conto di quello che stavo facendo. Le sue parole, però, non riuscivo nemmeno a seguirle: ero scossa. Alla fine, gli agenti mi hanno intimato di andarmene: "Meglio per te, per noi e per loro". Mi hanno scortata fino all’uscita della via. Avrei potuto restare, appellarmi al mio diritto di cronaca, ma il clima era troppo infuocato e non sono riuscita a proseguire il reportage. Parlando poi con colleghi, ho saputo che la reazione era stata simile anche nei loro confronti: allontanati bruscamente, respinti. Capita, mi hanno detto. Capita in questi casi. Io, però, ci ho riflettuto a lungo. Comprendo il dolore, la rabbia cieca di chi perde un parente o un amico in modo così tragico. Non si ragiona lucidamente, lo so. Ma i miei intenti non erano speculativi: ero lì per raccontare. Perché se leggete le cronache e c’è chi mette in luce le responsabilità anche delle tragedie è grazie a chi va sul posto, osserva, cerca di capire. E devo confessarlo: non è facile nemmeno per noi. Intervistare parenti in lacrime, fare domande a chi soffre è una delle parti più difficili di questo mestiere. Mi hanno urlato: "Come ti sei permessa di chiedere certe cose?". Ma io non avevo chiesto nulla: ero appena arrivata e mi sono ritrovata addosso una folla inferocita. Dicevano anche che stavo ridendo, ma non era assolutamente vero. Non è giusto aggredire chi cerca solo di informare. Il tema che stava dietro a questa tragedia era - ed è tuttora - di enorme importanza: quello delle morti sul lavoro. Poi si è venuto a sapere, a quanto pare, che non si trattava di una negligenza strutturale o di una mancanza di sicurezza (anche se l'azienda, precedentemente, era stata chiusa per irregolarità), ma è stato un incidente: l’accensione di un flex dentro una cisterna che ha fatto esplodere la struttura (un fascicolo di reato per omicidio colposo plurimo è stato aperto dalla Procura). Una fatalità, certo. Ma non per questo meno grave. E proprio per questo, credo che fosse giusto esserci. Raccontare, documentare, spiegare. Perché ogni volta che un lavoratore muore, anche in un semplice incidente, non è mai “solo” un fatto di cronaca: è una vita spezzata, una famiglia distrutta, un segnale che ci ricorda quanto fragile sia la sicurezza di chi lavora. Il giornalismo serve a questo: a tenere accesa l’attenzione su ciò che conta davvero. E se qualcuno, in quei momenti, sceglie di zittirci con la violenza, allora significa che il nostro lavoro è ancora più necessario.
