Zaccaria Mouhib, in arte Baby Gang, è di nuovo in carcere. Questa volta per una pistola dalla matricola abrasa trovata nell’albergo dove alloggiava dopo essere stato ospite sul palco a un concerto di Emis Killa, più due altre armi nascoste in casa, trascinandosi dietro nell’indagine anche una compagnia di amici con passaporto macedone e specializzati in cocaina e kalashnikov, come dice la cronaca, per un giro di affari da circa 12mila euro al mese. Mentre tutti aspettano l’uscita di Grand Theft Auto VI, ci si può accontentare di questa versione in qualche modo squallida, ma il problema non è tanto che Baby Gang sia il king delle coglionate - e lo è, perché come altro definire chi si fa riprendere in un video musicale con un AK47 vero - quanto che i modelli sociali, che poi sono quelli a cui si fa riferimento quando ci si trova a optare per una o più identità, sono un fallimento totale. Re delle coglionate si diventa, non ci si nasce. E se il disagio o lo svantaggio della posizione di nascita possono essere un triste traino verso la vita criminale, questo lo si può comprendere e compatire. Se però tu potresti vivere di musica, ma preferisci spacciare e portarti pistole in albergo come se fossi in un film di Tarantino, allora sono stracazzi tuoi.

La trap violenta, con pistole, cocaina e ostentazione da gangster, non è certo nata a Calolziocorte in provincia di Lecco, anche se lì ha trovato terreno fertile. Anzitutto, viene venduta come nuova ma è roba vecchia, che non è di fatto cambiata dalla Los Angeles di fine anni 80, con le gang vere, gli omicidi, Eazy-E, NWA e gli altri “Nigga witta gun”. Non era la provincia lecchese: una pistola ti poteva davvero salvare la vita, e se adesso Dr Dre è passato dalla gun a produrre il gin con Snoop Dogg che nel frattempo è diventato il nonnetto sballone che posta video idioti su Instagram, altri loro colleghi del gangsta rap non sono usciti vivi dagli anni Novanta. Ma se vogliamo davvero capire la situazione non basta dire “sono tutti criminali”, facendo del moralismo paternalistico. Bisogna leggere, come sempre, cosa dicono i filosofi, per capire di cosa stiamo parlando. Il tema, grande, parlando di armi, è quello della violenza. Pistole, fucili e quant'altro sono un simbolo di potere, prima ancora di appartenenza a un mondo che li ha assunti per pura estetica come quello del rap e di certa trap. Potere che, secondo la classica definizione del sociologo Max Weber, è monopolio della violenza in un territorio, anche se il pensatore tedesco faceva riferimento all'apparato statale, quindi alla violenza legittima, e non a un cantante che tiene la pistola in hotel tanto per bellezza, come se fosse un accendino.
Ironie della storia e della sorte. Michel Foucault, in Sorvegliare e punire, ripercorrendo la storia della prigione come istituto, era partito dallo “splendore dei supplizi”. La pubblica esecuzione era “un cerimoniale per ricostituire la sovranità, per un istante ferita” dalla condotta criminale del condannato che aveva osato sfidare il potere. Il “teatro dell'atroce”, fatto di riti e cerimoniali precisi, in cui l'impiccagione era lo spettacolo necessario a uno sfoggio di potere. Un po' come farsi vedere in un video con il mitra, solo che la posta in gioco era un po' più alta della street credibility sufficiente a poter poi mettere in musica la rima “prison/corazón”. L'aspetto ironico è che, se la prigione è sorta come naturale evoluzione delle esecuzioni pubbliche che spettacolarizzavano la violenza, chi adesso come Bang Gang usa la violenza per fare spettacolo poi si ritrova in prigione di continuo.

Ma, si dirà, le pistole per la trap sono come la sigaretta per i cantautori. Estetica dell'identità. E forse allora Baby Gang è vittima di quella che il filosofo indiano e premio Nobel per l’economia Amartya Sen chiamava “l’illusione solitarista”: pensare di avere un’identità soltanto. Per Sen questa univocità dell’io - credere di essere soltanto un blocco monolitico assegnato dalla cultura, dalla patria o dal proprio ruolo - sta all’origine della violenza, perché tutto ciò che resta fuori dall’identità viene considerato come nemico. Nel caso del trapper, però, l’illusione è autolesionista, perché la sua è di fatto un’identità da imbecilli, che ti porta a farti vedere con pistole in mano anche se non ne avrai mai bisogno. Così, tanto per essere fighi. È un po' quello che Alain Badiou chiamava disorientamento del mondo, una funzione tutta contemporanea che deriva dall'indebolimento delle ideologie. Il filosofo citava una poesia di Aragon, di cui una strofa diceva: “abbattete i poliziotti”. Ma lì, la violenza era indirizzata dall'ideale comunista. L'esigenza di Baby Gang, “non sento tanto, fuck al commissario”, è quella di mostrare al pubblico un'immagine da rapinatore di banche che poi non è. Perché? Per guadagnare con la musica, ovviamente. Quindi, il caro vecchio capitalismo teorizzato da Karl Marx nell'Ottocento. L'uomo Baby Gang è il feticcio del suo prodotto, cioè della sua stessa immagine, e la sua forza lavoro consiste nel produrre una narrazione criminale che da un lato viene data in pasto ai consumatori di musica, dall'altro lo annichilisce. Quindi sì, la tesi torna: Baby Gang è il re delle coglionate. Ma se oggi milioni di ragazzi lo ascoltano e magari, essendo in piena e legittima età da coglionate, sognano di imitarlo, il problema non è soltanto suo.

