Lo Stato della California ci prova: il parlamento ha dato il primo via libera a una proposta di legge, il Journalism Preservation Act, che vorrebbe imporre ai moloch del web, i gruppi Google, Twitter e Meta (Facebook, Instagram), di trasferire mediante arbitrato una percentuale dei profitti a favore delle società che editano contenuti giornalistici condivisi sulle loro piattaforme. A loro volta, gli editori sarebbero obbligati a girare il 70% degli introiti per dare ossigeno al personale, falcidiato in questi anni da un’ecatombe di licenziamenti. “Se il Journalism Preservation Act passerà, saremo costretti a rimuovere le notizie da Facebook e Instagram piuttosto che pagare un fondo che avvantaggia soprattutto le grandi aziende mediatiche di altri Paesi, con la scusa di aiutare gli editori californiani”, ha scritto in un comunicato Meta, la multinazionale di Mark Zuckerberg. Le presunte grandi aziende straniere - evocate come utile spauracchio per solleticare certo retorico patriottismo ultimo rifugio di chi è senza argomenti – c’entrano davvero poco con l’emergenza, per la verità non solo californiana ma di tutti gli Stati Uniti, di un’informazione locale depredata e desertificata da fondi speculativi, come ad esempio l’Alden Global Capital proprietario della Digital First Media, che arrivano, comprano, sminuzzano, tagliano, chiudono uffici e buttano su una strada i giornalisti, sostituendoli in qualche caso con l’intelligenza artificiale, e annunciando alla fine, tutti tronfii, di aver “razionalizzato”.
In Italia, date le dimensioni enormemente inferiori al panorama americano, una sindrome da cavallette finanziarie di questa portata non sarebbe neanche possibile, anche se qualche movimento in tal senso si è avviato. La Sae (Sapere Audere Editori) dell’abruzzese Alberto Leonardis ha rilevato le testate regionali di cui si è liberato il gruppo Gedi della famiglia Elkann (Repubblica, La Stampa), ma si è messo in rotta di collisione con le redazioni delle Gazzette di Reggio Emilia e Modena, della Nuova Ferrara e del Tirreno che fanno muro contro gli accorpamenti, leggi cassintegrazione e riduzione della manodopera. Il direttore delle testate, Luciano Tancredi, è stato sfiduciato dall’assemblea dei redattori. Leonardis, ex advisor di varie aziende di primo piano (Telecom, Microsoft Italia, Poste ecc), partito come editore del quotidiano regionale d’Abruzzo Il Centro, a marzo spiegava che la sua strategia prevede una serie di acquisizioni per “espandersi in varie aree, come l’organizzazione degli eventi, la comunicazione d’impresa e degli enti pubblici, e anche nella produzione di contenuti audio e video”, con l’acquisto di “una società di produzione cinematografica” e l’intenzione di realizzare “docufilm, reportage e docuserie di stampo giornalistico, sia da proporre a pagamento sulle nostre piattaforme, sia per venderle grandi player del mercato televisivo”. Il core business originario, il giornalismo di territorio diffuso capillarmente, in tale scenario pare sfumare all’orizzonte, perdendosi nelle retrovie. Nelle quali i lavoratori rischiano di perdere il lavoro.
In realtà, di capillarità, nella diffusione sul suolo nazionale di testate locali, ce n'è sempre di meno. Da parecchi anni, ormai, è in atto un progressivo diradamento delle redazioni decentrate, e non soltanto nei piccoli centri incastonati nelle province, ma anche in alcuni capoluoghi (per dire, Vicenza, una delle prima città industriali d’Italia, non ha più una sede del Gazzettino da oltre dieci anni). L’estensione quasi totale dello smart working, eredità del periodo pandemico, ha poi dato la mazzata finale: attualmente le redazioni fisiche ospitano nuclei sempre più striminziti dei soli giornalisti assunti in pianta stabile e neanche tutti, perché parte di loro si aggiunge alla vasta massa di collaboratori, fissi o esterni, tutti quanti operanti con il proprio pc a casa propria. L’ultimo baluardo di qualità professionale del mestiere, anzitutto e soprattutto data dal lavoro di squadra fianco a fianco, è in disfacimento per la gioia dei bilanci aziendali, che decurtano costi come se la fatica intellettuale di sfornare un giornale fosse esclusivamente una questione di cifre. Ciò nonostante, l’Italia resta un Paese in cui la presenza dei giornali territoriali è ancora forte, riflettendo del resto la realtà ostinatamente localistica dei nostri mille campanili. E tuttavia, come testimonia una ricerca del 2022 firmata da Andrea Mangani per la rivista “Economia e società regionale”, a rimanere in sella sono soltanto quelle testate tradizionali che al cartaceo accoppiano l’online. Mentre quelle native digitali, se singole e solitarie nel mare della Rete, arrancano e si arrabattano, a volte resistendo eroicamente grazie al puro volontariato (tradotto: spesso, chi ci lavora ha un primo lavoro che non è giornalistico), a volte finendo con lo sventolare bandiera bianca (non di rado a causa di editori improvvisati, non in grado di reggere per più di un certo numero di anni le conseguenze, economiche, legali, politiche del difficile e ostico “prodotto giornale”).
La catena Citynews di Luca Lani e Fernando Diana, con i suoi cinquanta Today sparsi per la penisola, 12 direttori responsabili e 250 fra dipendenti e freelance, ha avviato anche il canale d’abbonamento per finanziare l’esperimento “Dossier”, la parte di giornalismo investigativo inaugurata con l’intento di superare il modello di mera cronaca seguito fino a due anni fa. La gratuità totale, infatti, non è più sostenibile. La raccolta pubblicitaria, sia complessiva sia sul web, non basta. Il sistema misto, un po’ gratis un po’ a pagamento, si sta affermando come l’unica via fattibile per restare appena appena a galla. E comunque ciò non impedisce lo sfoltimento coatto del personale, sfruttando a tutto spiano la leva dei prepensionamenti ed evitando con sistematicità di trasformare i contrattini di collaborazione, che in realtà si configurano come dipendenza di fatto (un quotidianista, per arrivare a fine mese senza saltare pranzi e cene, deve sgobbare come un dipendente, anzi di più), in contratti di assunzione con tutti i crismi, i contributi e i relativi diritti. Per far quadrare i conti della spesa, una miriade di giornalisti presta la propria penna contemporaneamente per uffici stampa (rischiando quindi conflitti d’interesse di cui a nessuno frega più nulla: primum vivere) o per agenzie di comunicazione, che solitamente pagano meglio, almeno in rapporto alle ore sostenute. Il quadro che ne emerge, di dispersione e frammentazione, di precarietà e di costrizioni (se voglio sperare di essere un bel giorno assunto, mi metto sull’attenti, allineato e coperto, limitandomi a fare, in sostanza, l’ottimo impiegato) non è che l’effetto di un’editoria che sul locale ha l’unico pregio di fornire ancora una copertura alle notizie del posto, nervo vitale della vita sociale, ma sommergendolo di tutti i difetti di quelle nazionale, e peggiorati: conformismo, provincialismo, legami a doppio filo con interessi costituiti, piattezza, prevedibilità, censura e autocensura. Perché la vera concorrenza, anche a questo livello, è scarsa: in un certo quadrante, la norma è che esista una testata dominante che strozza il mercato, e come si sa, il monopolio è l’anticamera e garanzia dell’uniformità di pensiero.
Se poi ci aggiungiamo che qualcuno percepisce pure aiuti pubblici, il piatto è servito. 3,6 milioni di euro sono andati nel 2020 al Quotidiano del Sud; in Veneto il presidente leghista Luca Zaia ha stanziato 2 milioni per alcune emittenti locali; in Trentino-Alto Adige il gruppo Athesia, beneficiario dei fondi pubblici a sostegno delle minoranze linguistiche, controlla il Dolomiten in lingua tedesca, ha rilevato gli ex quotidiani Gedi, Alto Adige e Trentino, e si è accaparrato anche il secondo più diffuso, L’Adige. Da non confondere con Athesia, il gruppo Athesis (L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, controllati dalla Confindustria vicentina e dai Rana), secondo insistenti rumors guarda con interesse alle mosse del patron dell’aeroporto di Venezia, Enrico Marchi, che sta lavorando a subentrare a Gedi nella proprietà del Mattino di Padova, Tribuna di Treviso e Nuova Venezia. E anche qui, chissà mai con quali, e quante, “razionalizzazioni”. In fondo al tunnel, come sottolineava la prima ricerca dell’Agcom sul settore locale realizzata nel 2019, si trova un dato significativo: gli italiani, per informarsi sui fatti del proprio cortile, importantissimi perché l’attenzione più immediata va a ciò che ci succede intorno, si affidano al servizio televisivo pubblico regionale, ossia ai telegiornali regionali, i Tgr. Molto più che le gazzette storiche, acquistate in edicola ormai solo dagli anziani, o le loro homepage che ne sono la semi-fotocopia su internet, sono questi gli appigli a cui è affezionata e fedele l’opinione pubblica geolocalizzata. Forse perché, sarà meglio ribadirlo, sono pubblici, finanziati cioè dal canone. Altrimenti, campa cavallo, che l’erba non cresce più.