Da diversi mesi la guerra in Ucraina non ha più nulla da dire sul fronte strategico delle grandi manovre. Non lo ha sul fronte dei movimenti sul campo: eccezion fatta per il carnaio di Bakhmut e per la creazione di enormi campi minati che hanno stravolto l’assetto geografico delle aree conquistate dai russi da giugno in avanti la controffensiva ucraina non ha spostato se non di pochissimo le linee del fronte. Ne lo ha sul fronte strategico-politico, dove i risultati sono e restano quelli acquisiti tra l’invasione russa del 24 febbraio 2022 e la risposta vincente di Kiev a Est di settembre. Essenzialmente, tre i punti chiave: nessuna parte in campo ha la capacità di vincere militarmente il conflitto; la Russia ha “perso” l’Ucraina perché con l’invasione ha consolidato un sentimento nazionale e nazionalista di orgoglio in un Paese a lungo diviso; l’Occidente non ha alcuna intenzione di proseguire il sostegno a Kiev fino all’ipotesi di una vittoria totale, visti i costi umani, materiali, economici e strategici che comporterebbe.
Lo spartiacque che ha reso chiaro al mondo questo è stato il caso Prigozhin del 24 giugno scorso: neanche la ribellione contro Vladimir Putin del capo mercenario della Wagner ha cambiato lo stato di fatto che vedeva una lenta, logorante, manovra ucraina avanzare incespicando. Il feuiletton della guerra, da quasi un anno è chiaro: scambio di colpi con artiglieria, missili e droni; operazioni locali costosissime in termini di uomini; continui accrescimenti della richiesta ucraina di armi e mezzi a cui si risponde sul contagocce; proclami incendiari russi di fronte alle iniziative ucraine che non si risolvono in manovre strategiche a tutto campo. La Russia questa guerra non può vincerla perché è impegnata al massimo dello sforzo in una mobilitazione militare e industriale che sfida i limiti del suo fragile sistema economico. Ha mobilitato l’industria per l’economia di guerra, siglato partnership con Paesi come Iran e Corea del Nord, mostrato al mondo la debolezza dei suoi assetti tecnologici e cyber rispetto alle aspettative e subito diversi scacchi strategici. “Non sottolineiamo, ad esempio”, ci dice l’analista militare e geopolitico Amedeo Maddaluno, “il fatto che la Russia ha dovuto ritirare la flotta del Mar Nero. I confini russi sono e saranno impresidiabili, qualsiasi operazione militare la Russia porti avanti per renderli sicuri e il Mar Nero è un “lago” della Nato con o senza un controllo russo sulla Crimea e altre zone strategiche dell’Ucraina. Inoltre, un altro scacco strategico è stato il fatto che Putin ha raso al suolo quella parte d’Ucraina che condivideva con la Russia almeno quattro fattori accomunanti: lingua, ortodossia, memoria sovietica, resistenza al nazismo”. Dunque, la tenuta sostanziale russa di fronte alle manovre ucraine non deve esser confusa, come hanno fatto autorevoli testate come l’Economist, come una “vittoria”. Ma come la correzione di una situazione strategica fattasi subottimale nei primi mesi di conflitto.
L’Ucraina, dal canto suo, non può andare oltre. Ha perso, tra vittime, profughi e territori occupati da Mosca, il 25% della sua popolazione anteguerra, ha teso al massimo l’impegno per reclutare le truppe necessarie alle armate di Volodymyr Zelensky per tenere il fronte, ha profuso nella diplomazia di guerra tutte le sue energie. Si è trovata rifornita di consistenti assetti militari di deterrenza e controffensiva, come i preziosi Himars, ma le sue armate non hanno ancora la necessaria padronanza della manovra del campo Nato per governare mezzi eterogenei e complessi. Al contempo, l’Ucraina ha visto un’emarginazione delle frange politiche più aperte all’idea di una pace negoziata, con Zelensky che in particolare ha messo da parte Olekseij Arestrovyich, suo antico spin doctor, per aver dubitato della “vittoria finale”. A cui, però, oggi sembra che sia l’Occidente collettivo che sostiene Kiev a non voler puntare. Perché questa discrepanza tra retorica e azione? “La realtà”, ci dice lo storico e politologo Aldo Giannuli, direttore del centro studi Osservatorio Globalizzazione, “è che si è vissuti dall’inizio della guerra con l’idea errata che quella in Ucraina fosse una guerra per procura tra Usa e Russia. Sbagliato: gli Usa hanno sottovalutato con la loro intelligence le capacità di resistenza ucraine e all’inizio hanno dato un quantitativo di armi ridotto. Polacchi e britannici”, dice Giannuli, “sono stati più risoluti nei primi mesi”. Poi il sostegno si è rafforzato “quanto bastava per consolidare l’obiettivo americano di indebolire la Russia, staccarla dall’Europa e riprendere la leadership del campo atlantico”. Ma in un contesto di insicurezza collettiva a livello globale “ciò che gli Usa penso temano di più è un collasso della Russia in caso di disfatta”, aggiunge Giannuli. “Per Washington un collasso simil-sovietico della Russia in caso di sconfitta e crollo del potere di Putin aprirebbe una serie di incertezze di cui il caso Prigozhin è stata l’avvisaglia. Non escludo, dunque, che nei colloqui sottotraccia tra le intelligence di Usa e Russia in questi mesi si siano siglate delle linee rosse di fatto”, sostanziate ad esempio nel blocco americano sull’uso degli assetti dati a Kiev contro il territorio metropolitano russo in cambio di una riduzione in intensità degli attacchi russi all’infrastruttura civile ucraina. “Il vero nemico degli americani, in prospettiva, è la Cina. L’Ucraina è una diversione”, chiosa Giannuli.
La realtà parla dunque di una guerra strategicamente a encefalogramma piatto in cui tutto, compresa la modifica dell’enfasi retorica dei leader occidentali, lascia presagire che il 2024 possa esser l’anno buono per un qualche tipo di abboccamento diplomatico. “La guerra finirà con un negoziato”, si diceva certo un anno fa il generale americano ed ex comandante della Cia David Petraeus, sottolineando che Putin avesse con le sue mosse “reso la Nato nuovamente grande” e che tanto bastasse per definire un risultato accettabile all’Occidente. Negoziati che, per l’ex ambasciatore italiano a Mosca Sergio Romano, potrebbero di fatto certificare il passaggio di alcune zone ucraine all’orbita russa in cambio del riconoscimento da parte di Mosca della sovranità di Kiev: “ la cessione del territorio ci sarà, prima o dopo, lo sappiamo tutti. Un pezzetto di terra cambierà padrone”, ha dichiarato Romano a Money.it. Non necessariamente tramite trattati o accordi: basta un accordo di cessate il fuoco a rendere la crisi di fatto “congelata”, come tante in giro per il mondo. E l’ipotesi non appare più così remota o distorta come in passato. Può piacere o meno, ma se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, è la politica che deve intervenire per spegnere gli incendi quando le fiamme appaiono più domabili. E in un mondo di crisi a cascata, quella Ucraina è oggi una di tante guerre o aree di crisi potenzialmente dirompenti. Su cui lo stallo offre l’opportunità di intervenire tramite accordi tra le maggiori potenze per una questione di Realpolitik.